martedì 25 novembre 2014

Con la excusa del tinto

    Te he esperado hasta última hora. Me traje la bufanda azul por si hacía frío y al final me la he tenido que poner. Porque se ha hecho tan tarde que el sol ha desaparecido por detrás de los edificos, lento y rosado. Sentada en la acera me ha parecido entreverte en medio de la gente que caminaba rápido hacia sus casas. Ahora tendré que inventarme una excusa, porque no volveré a tiempo a la mía. Eras la barra de pan que he bajado a comprar, y una botella de vino, para celebrar mis patrañas delante de otro.
   Una hora entre ir y volver, dije, pero lo tenía todo preparado ya. Debajo de una manta, en el coche, hacía varias horas que se escondían la botella y el pan. A media tarde, sedienta de ti, le he hecho creer que hubiera dado mi vida por cenar con un tinto. Y muy cerca de casa, dos esquinas más allá, me he sentado en la acera a esperarte.
   Se me han enfriado las manos y los labios. La lengua me sabe a mentira, la que escupiré convencida en el suelo del pasillo, cuando me invada el calor de casa atravesando la puerta.
   Lo miraré a los ojos, valiente y falsa, con la bolsa de plástico entre las manos, y le diré que estaba cerrado y tuve que ir más lejos. Me dolerá el corazón por el daño invisible, por la ausencia de amor que nos corroe día tras día.
   Y sé que nos beberemos la botella, que nos comeremos el pan sonriendo. Luego, tal vez, incluso hagamos el amor, un poco borrachos fuera y tristes por dentro. Mientras lo beso con los ojos cerrados y pienso que sus labios son los tuyos. Dejando que me disuelva el sueño entre las sábanas. Cansada de esperarte a escondidas, de no poder respirar en el mismo centímetro de aire acurrucados en algun portal, de comprar vino como excusa y brindar a la salud de un amor que no existe.

   Aunque ya se que cuando tú me lo digas volveré a inventarme un pretexto para robar unos minutos a la vida y regalártelos en una calle cualquiera. A engullir una vez más las migas resecas que nos dejamos el uno al otro porque es mejor que pasar hambre. Cuando tú me lo digas volveré a sentarme en una acera fría a devorarme las lágrimas y a envolver mis tristes mentiras con tu bufanda azul.

martedì 18 novembre 2014

Il morbo di Alois A.


Cammina piano, dondolandosi. Ciabatte nei piedi e una camicia aperta e sporca di caffè. Lei  gli viene incontro per la strada, camminando leggera nonostante il peso e l’età. Vestita con una camiciola stampata e scarpe basse,  come solo la fretta ti lascia fare, senza tempo per lo specchio o il pettine.
  Lui con i passi di chi non sa dove va ma si porta nella mente una lucina, la certezza che la persona di cui non ricorda il nome è la sua salvezza.  Chiede da dove arriva, dice che era da solo ed è uscito a cercarla. Con le mani in avanti, un po’ cercando altre mani, un po’ per mantenere l’equilibrio. Gli occhi persi per metà in quelli di lei, per metà nell’aria.
   Lei risponde paziente: “Te l’avevo detto che uscivo e tornavo in fretta. Dovevi aspettarmi.”
   “Ma tu non c’eri” dice lui con ostinazione.
   E la donna, con quell’amore infinito che non si distrugge nemmeno nei tempi peggiori, lo prende sotto braccio e dice: “Andiamo a casa”.

   Si allontanano così, attaccati. Passano al mio fianco, lasciando dietro di se l’essenza stessa della sofferenza, l’odore di clausura e di zuppa, il profumo amaro che fissano le pastiglie sulle mani. L’alito dell’amore che viaggia in una sola direzione. Delle emozioni confuse che vivono in un altro universo ma non per quello meno intense.  

  Cerco d’ immaginare, perchè so già della vita di altri, il principio di tutto. Lui, che non ha mai dimenticato niente, perde ricordi goccia dopo goccia. Lui, pacato e silenzioso, che la insulta a spintoni. Che un giorno, seduto sul divano, decide di morsicarsi i polpastrelli delle dita fino a farli sanguinare.  Ma non è l’inizio della fine. E’ l’inizio di una nuova vita.


  Li guardo mentre girano l’angolo. E penso che essere coraggiosi non è quello che vogliono raccontarci, ma questo.  La difficoltà non è nel poter essere liberi.  La scelta più coraggiosa, quella più difficile, è restare.

venerdì 14 novembre 2014

La enfermedad de Alois A.


 Camina despacio, balanceándose. Alpargates en los pies y una camisa abierta sucia de café. Ella vuelve calle abajo, caminando ligera a pesar del talle y la edad. Un blusón de flores y unos zapatos sin tacones, vestida como sólo la premura te deja, sin tiempo para el espejo o el peine.
 Él se mueve con los pasos del que sabe que en esa dirección está su refugio. Cuando la ve le pregunta de dónde viene, dice que estaba solo y salió a buscarla. Las manos hacia delante, un poco buscando las otras manos y un poco por mantener el equilibrio. Los ojos perdidos a mitad entre los de ella y el aire.
 Ella responde paciente: “Te lo dije que salía y volvía enseguida. Que me esperaras.”
 “Pero tu no estabas”, dice él obstinado.
 Ella, con ese amor infinito que no se destruye ni en los tiempos peores, lo coge del brazo y dice: “Vamos a casa”.
   Se alejan así, agarrados. Pasan a mi lado dejando tras de sí la esencia misma del sufrimiento, el olor a clausura y a sopa, el perfume amargo que fijan las pastillas en las manos. El aliento del amor que viaja en una sola dirección. De las emociones confundidas que viven en otro universo pero no por ello menos intensas. 


 Intento imaginarme, porque ya sé de la vida de otros, como empieza la historia. Él, que nunca olvidaba, pierde recuerdos gota a gota. Él, pacifico y silencioso, que la insulta a empujones. Que un día, sentado en el sofá, se mordisquea las yemas de los dedos hasta hacerlas sangrar. No es el principio del fin. Es el principio de otra vida.
  Los miro mientras doblan la esquina. Y pienso que ser valientes no es lo que nos quieren contar, sino esto. Que lo difícil no es poder ser libres. Lo más dificil, lo más valiente, es quedarse. 

domenica 31 agosto 2014

La sirena




   Viveva sotto il mare, cullata dalle maree, ricoperta di squame color smeraldo, respirando bollicine salate.  Aveva i capelli inanellati, scompigliati dalle onde e intrecciati con alghe, tra i quali nuotavano piccoli pesci iridati.
   Viveva seduta sopra le rocce, quasi immobile, sul fondo della scogliera. Là dove si infrangono le onde, sotto la schiuma. Non parlava con nessuno. Aveva la bocca chiusa in un triste sigillo. I denti aguzzi si vedevano appena tra le labbra, che formavano una linea nera in un volto niveo. Gli occhi verdi, luminosi e senza pupille, occhi di sirena, erano sempre aperti, giorno e notte.

  Come una statua di bronzo, come una reliquia antica. Guardava un punto nell’orizzonte abissale, oltre la sabbia brumosa spolverata di stelle e molluschi. Otre il buio, dove il mare è così profondo che persino le sirene hanno paura.  Aveva il viso bianco e freddo, le mani riposando sul ventre sterile. Soltanto la lunga chioma si muoveva intorno al corpo, accarezzandole la pelle al ritmo della marea.
  La sirena era vittima di un crudele incantesimo. Non era come le altre. Lei poteva sentire. Senza uscire alla superficie, senza avere mai toccato un ciottolo della costa, sentiva incessantemente le voci di tutti gli uomini.
  Una mattina, nella profondità dell’insenatura, cominciò ad avvertire suoni, mentre dentro la sua testa si insinuava il mondo esteriore. Spaventata, si sedette sulle rocce per capire quello che, senza permesso, si era rivelato dentro le sue orecchie affilate torturandole la mente.
  Fuori dall’acqua esisteva un mondo diverso, arido, sterile come il suo ventre di creatura immortale. Immobile come le rocce della scogliera. Scoprì che potevano respirare soltanto l’aria calda,  li aveva visti altre volte camminare sulla costa, quando, durante il tramonto, affacciava i suoi occhi da sirena sull’orlo dell’acqua per vedere le stelle tra le dune.

 Scoprì che vivevano in gruppi, in piccoli banchi, quasi come i pesci. Ma non per proteggersi tra loro, no. Aveva sentito parole di amore e disprezzo. Persino pianti, lacrime e, di rado, ridere. Si contorceva le mani affusolate guardando il vuoto acquoso, senza capire, ascoltando.  
  Scoprì che mangiavano i propri simili, aveva sentito anche quello. Parole di morte e urla di dolore. Suppose che si alimentassero della loro stessa carne.  Scoprì che non c’era un ordine prestabilito e che le lingue erano diverse. Che l’inflessione della voce poteva comunicare sensazioni completamente contraddittorie.
  Scoprì che non tutti dormivano dopo il tramonto, e che a volte le luci che illuminavano il cielo non erano soltanto tormente, che l’alba non sempre portava risvegli.

  Alcune conversazioni parlavano di pioggia, di vento, di mani intrecciate e abbracci. Arrivavano fino a lei lo schiocco dei baci e i sussurri delle voci infantili. La raggiungevano grosse rissate, il rumore degli uccelli, dell’acqua e dei rami degli alberi. Mormorii conosciuti, sentiti mille volte nella spiaggia. Quando la sabbia scotta a mezzogiorno o diventa fresca all’ora delle ombre.
  Quando sentiva quei suoni non si muoveva nemmeno un millimetro. Ascoltava con attenzione, compiaciuta, finche le voci si allontanavano dalla sua mente.

  Ma succedeva poche volte. Spesso erano urla, colpi. Sentiva  pelle contro pelle, dieci, cento, mille volte, fino a che non assaggiava nella propria bocca il sapore del sangue.  Sentiva il metallo scivolare attraverso la carne e grida terrorizzate, a volte fragori ed esplosioni. Poi il silenzio.
  Scoprì l’odio all’interno di una specie.

  Mentre guardava i riflessi dell’acqua, lasciandosi accarezzare il viso dai capelli, mentre la luce del sole ballava con le onde e i colori della baia, scoprì che la vita nel mondo arido non valeva niente. Che camminava verso l’estinzione. 
  Ogni giorno e ogni notte, stringendo i denti, quasi senza respirare il mare, attendeva che le voci se ne andassero per sempre.
  Ma non successe. Con la testa piena di parole e frastuoni, la sirena degli occhi verdi senza pupille, non poté più sopportarlo.

  Si allontanò dalla scogliera, nuotando verso le profondità che temeva così tanto. Nuotò fino a perdere le squame e i capelli, veloce, attraverso l’oscurità. Fuggendo da voci e urla, dal sapore del sangue che le riempiva la bocca ogni volta che udiva una morte. Fuggendo dal dolore dell’altro mondo, terribile, violento. Fuggendo da un orrore più grande di tutto l’amore che il vento portava fino alla spiaggia ogni sera.
  Le voci non l’abbandonarono mai. Rimassero dentro di lei giorno dopo giorno. Non avvertiva più le correnti dell’oceano, né il bisbiglio dei pesci vicino al suo collo.
 
  E morì, anche se le sirene non muoiono mai. Ma lei si. Morì di tristezza, con gli occhi spalancati e le mani che coprivano le orecchie affilate. Morì con la bocca aperta, gridando sotto il mare, un urlo ovattato incorniciato di bollicine.
  I pesciolini iridati mangiarono le sue squame e poi la seppellirono sotto la sabbia, ricoprendola di stelle di mare. Le lasciarono gli occhi aperti, perché non avesse paura del buio e riempirono le sue orecchie di piccole conchiglie, così non avrebbe mai più sentito nient’altro che le maree.

domenica 24 agosto 2014

La sirena


  Vivía debajo del mar, mecida por las ondas, cubierta de escamas color esmeralda y respirando burbujas saladas. Tenía los cabellos ensortijados, revueltos por las olas y entrelazados con algas, entre los que nadaban pequeños peces irisados.
  Vivía sentada sobre unas rocas, casi inmóvil,  en el fondo del acantilado. Allá donde rompen las olas, bajo la espuma.  No hablaba con nadie. Tenía la boca cerrada en una mueca triste. Los dientes afilados apenas se veían a través de los labios. Eran una línea negra en un rostro níveo. Los ojos verdes, brillantes y sin pupilas, ojos de sirena, se mantenían abiertos día y noche.
  Como una estatua de bronce, como una reliquia antigua. Miraba un punto en el horizonte abisal, más allá de la arena borrosa teñida de estrellas y moluscos. Más  allá de la oscuridad, donde el mar es tan profundo que hasta las sirenas tienen miedo.

  Tenía la tez blanca y fría y las manos descansando sobre su regazo estéril. Sólo se movía su larga melena alrededor del cuerpo, acariándole la piel al ritmo de la marea.
  La sirena era víctima de un cruel embrujo. No era como las demás. Ella podía oir cosas. Sin salir a la superficie, sin haber tocado jamás un guijarro de la costa, oía incesantemente las voces de todos los hombres.

  Una mañana, en las profundidades de la ensenada, empezó a escuchar sonidos mientras dentro de su cabeza se reflejaba el mundo exterior.
  Asustada, se sentó sobre las rocas para comprender lo que se había revelado sin permiso en sus oidos picudos y torturaba su mente.

  Fuera del agua existía un mundo diverso, árido, estéril como su vientre de criatura inmortal. Inmóvil como las rocas del acantilado.
  
  Descubrió que podían respirar solamente el aire caliente, aunque ya los había visto a lo lejos otras veces caminando por la costa , cuando asomaba sus ojos de sirena sobre el borde del agua al anochecer para ver las estrellas tras las dunas.
  Descubrió que vivían en grupos,  en pequeños bancos, casi como los peces. Pero no para protegerse los unos a los otros, no. Había oído palabras de amor y desprecio. Y también llantos, lágrimas y, sólo a veces, risas. Se retorcía las manos afiladas mirando el acuoso vacío, sin entender, escuchando.
  Descubrió que se comían a sus semejantes, eso también lo había oído. Palabras de muerte y gritos de dolor. Supuso que se alimentaban de su propia carne.
  Descubrió que no había un orden establecido y que las lenguas eran diferentes. Que la inflexión de las voces podía comunicar sensaciones completamente contradictorias.    Descubrió que no todos dormían después del anochecer, que a veces las luces que iluminaban el cielo no eran sólo tormentas, que el alba no siempre traía despertares.

  Algunas conversaciones hablaban de lluvia, de viento, de manos entrelazadas y de abrazos. Venían hasta ella el chasquido de los besos y los susurros de voces infantiles. Le llegaban carcajadas, el ruido de los pájaros, del agua y de las ramas de los árboles. Murmullos conocidos, oídos mil veces en la playa. Cuando la arena arde a mediodía o se vuelve fresca al caer de las sombras.
  Cuando percibía esos sonidos intentaba no moverse. Escuchaba con atención, complacida, hasta que las voces se alejaban de su mente.

  Pero sucedía pocas veces. A menudo eran gritos, golpes. Oía piel contra piel, varias, cien, mil veces, hasta que en la boca sentía el sabor de la sangre. Oía el metal resbalar a través de la carne y aullidos aterrados. A veces fragor y estallidos. Depués silencio.
  Descubrió el odio al interno de una especie.
  Mientras fijaba los reflejos del agua dejándose acariciar el rostro por los cabellos, mientras la luz del sol bailaba con las ondas y los colores de la bahía, descubrió que la vida en el mundo árido no valía nada. Que caminaba hacia la extinción.

  Cada día y cada noche, con los dientes apretados, casi sin respirar el mar, esperaba que la voces se alejaran para siempre.
  Pero no ocurrió.  Con la cabeza llena de palabras y estruendo, la sirena de ojos verdes y sin pupilas, no pudo soportarlo más.
  Se alejó del acantilado, nadando hacia las profundidades que tanto temía. Nadó hasta que empezó a perder escamas y cabellos, veloz, a través de la oscuridad. Huyendo de las voces y los gritos, del sabor a sangre que le llenaba la boca cada vez que oía una muerte.   Huyendo del dolor del otro mundo, terrible, violento. Huyendo de un horror que superaba con creces el amor que el ruido del viento conseguía traerle hasta la playa cada tarde.

  La voces no la abandonaron jamás. Permanecieron en su interior día tras día. Ya no advertía las corrientes del océano, ni el susurro de los peces cerca de su pelo.
  Y murió, aunque las sirenas no mueren nunca. Pero ella sí. Se murió de pena, con los ojos abiertos y las manos cubriéndose las orejas puntiagudas. Se murió con la boca abierta, gritando bajo el mar, un sordo alarido repleto de burbujas.

  Los pececillos irisados se comieron sus escamas y luego la enterraron bajo la arena, cubierta de estrellas de mar. Le dejaron los ojos abiertos, para que no tuviese miedo de la oscuridad y luego le llenaron los oídos de pequeñas caracolas, para que ya nunca más oyera nada, excepto las mareas. 

giovedì 1 maggio 2014

Musica

Tu dicevi sempre che ascoltando la nostra canzone avrei sentito arrivare i tuoi baci da dietro le spalle. Anche se fossi stata lontana, nonostante il passare degli anni. Mi dicevi bisbigliando, mentre il tuo fiato mi sfiorava il collo: “Ascolta, senti bene la musica, perché non potrai dimenticarla mai”. Avevi ragione tu.
Lasciasti nella mia anima una spina avvelenata. Con un veleno infinito, per il quale non si muore, ma si vive stregati per sempre. La pozione dell’amore proibito che svanisce soltanto con la morte. Sento i tuoi baci che arrivano con la brezza del pomeriggio a baciarmi la nuca, a farmi solletico sulla pelle. Sento le punte delle tue dita che mi accomodano i capelli dietro le orecchie.
 Le gambe mi portano non ricordo già dove, perché la mente mi ha portato talmente lontano da farmi perdere per le strade. Perché i miei occhi non vedono i marciapiedi, vedono i miei piedi accanto ai tuoi; e le mie mani  non toccano l’aria ne toccano niente, se ne sono già andate dove abita il ricordo.
Così, un sorriso quasi nascosto e gli occhi di un altro mi portano la tua brezza. Credevo che il veleno fosse scomparso, in realtà si era solo diluito nel sangue e negli anni. Dietro quegli occhi ho visto i tuoi, quello che non dicono, quello che promettono. E la mia pelle ha risposto alla chiamata, piena di paura, avvolta nella tua musica.
Ascolta... Ho sentito le note così familiari che mi sfiorano come le tue labbra sulla commessura delle mie. La melodia, le parole, così nostre, come se le avessimo scritte noi, mi fan male come un pugno sul ventre. Chissà perché la bocca dello stomaco sussulta e freme ogni volta che un sentimento ci piomba dentro, come se l’anima abitasse proprio lì, poco più giù del cuore, adagiata sull’ombelico e alimentandosi di quello che trafigge la nostra pelle senza chiederci il permesso.
La vita non è stata ingiusta. Siamo stati noi a non rendere giustizia a quello che avevamo. E ora ritorni con un altro sguardo. Blu, (diverso dal tormentato pozzo nero con il quale mi guadavi) che mi osserva presagendo un futuro che io e te sapevamo a memoria.
Mentre il vento mi porta i tuoi baci e li aggroviglia nei miei capelli ho guardato la sua bocca. No è come la tua, ma mi sono chiesta curiosa, se quelle labbra diverse bacino come lo facevi tu.
Sento brividi alla schiena, la musica mi accarezza ogni vertebra, come piccoli baci, come gocce di pioggia che scivolano sulla pelle. Cammino e i miei piedi volano sopra l’asfalto.  La melodia è entrata dentro di me e mi sta strappando piano ogni respiro. Mi ruba il tuo ricordo, lo fa volteggiare intorno a me e lo porta via, come foglie secche.
Avevi detto: “Per sempre”. E io ti avevo creduto. Per questo, sopra il mio ombelico dorme la pena che si sveglia con la nostra musica e mi fa venir da piangere. Per questo, quando cammino e il vento mi accarezza, ti respiro nelle raffiche autunnali. Per questo, quando vedo i suoi occhi e il suo sorriso, tutto gira, mentre danzi intorno a noi sorridendo e canticchiando: “Vivilo, afferralo, lasciati spogliare l’anima”.
Chissà perché la pena e l’amore vivono insieme, dormono abbracciati e fanno il bagno nelle stesse lacrime, chissà perché la musica apre sempre una porta segreta e li libera allo stesso modo.
Tu dicevi sempre che ascoltando la nostra canzone avrei sentito arrivare i tuoi baci da dietro le spalle. Anche se fossi stata lontana, e nonostante il passare degli anni. Sento i tuoi baci che arrivano con la brezza del pomeriggio a baciarmi la nuca, a farmi solletico sulla pelle...


martedì 29 aprile 2014

Música

Tú me decías que cuando oyera nuestra canción sentiría llegar tus besos por la espalda. Aunque estuviese lejos, aunque pasaran los años. Me decías en un susurro, mientras tu aliento lamía mi cuello:“Escucha, oye bien la música, porque no la vas a olvidar ya”. Y que razón tenías.
Me dejaste en el alma una espina envenenada. Con un veneno infinito. Del que uno no se muere, sino que vive hechizado para siempre. La pócima del amor prohibido que sana sólo con la muerte. Sí que me llegan tus besos con el aire de la tarde a besarme la nuca, a hacerme cosquillas en la piel. Siento las puntas de tus dedos que me colocan el pelo detras de las orejas. Las piernas me llevan no me acuerdo ya dónde, porque la mente me ha conducido tan lejos que me pierdo por las calles. Porque no veo las aceras, veo mis pies junto a los tuyos; y mis manos no tocan el aire ni tocan nada, porque se han ido hacia el recuerdo.
Por eso otros ojos y otra sonrisa casi escondida me traen tu brisa. Yo creía que el veneno había desaparecido, pero sólo estaba diluido en la sangre y en los años. Detrás de esos ojos he visto los tuyos, lo que no dicen, lo que prometen. Y mi piel ha respondido a la llamada, llena de miedo, envuelta en tu música.
Atiende. He escuchado las notas tan familiares que me rozan igual que tus labios en la comisura de los míos. La melodía, las palabras, tan nuestras como si las hubieramos escrito nosotros, me duelen como un golpe en el vientre. Quién sabe porqué la boca del estómago palpita y se estremece cada vez que un sentimiento nos asedia, como si el alma viviera ahí mismo, debajo del corazón, reclinada sobre el ombligo y alimentándose de lo que penetra en la piel sin pedirnos permiso.
La vida no ha sido injusta. Hemos sido nosotros, que no hemos hecho justicia a lo que teníamos. Y ahora te presentas con otra mirada. Azúl, (distinta del negro agujero de tormento con el que me mirabas) me contempla presagiando cosas que tú y yo sabíamos de memoria.
Mientras el viento me trae tus besos y los enreda en mi pelo he mirado su boca. No es como la tuya, pero me he preguntado curiosa si esos labios diferentes besan como lo hacías tú.
Siento cosquillas en la espalda, la música me acaricia cada vértebra, como pequeños besos, como gotas de lluvia que resbalan por la piel. Camino y mis pies vuelan sobre el asfalto. La melodía ha entrado en mí y me está arrancando despacio cada respiro. Me roba tu recuerdo, lo hace revolotear a mi alrededor y se lo lleva, como hojas secas.
Dijiste: “Para siempre”. Y yo te creí. Por eso, sobre mi ombligo duerme la pena que se despierta con nuestra música y me hace llorar. Por eso, cuando camino y el viento me acaricia, te respiro en el aire del otoño. Por eso, cuando veo sus ojos y su sonrisa, todo gira mientras bailas a nuestro alrededor sonriendo y canturreando: “Vívelo, atrápalo, déjate desnudar el alma”.
Quién sabe porqué la pena y el amor viven juntos, duermen abrazados y se bañan en las mismas lágrimas. Quién sabe porqué la música les abre siempre una puerta secreta y los desata de la misma manera.


Tú me decías que cuando oyera nuestra canción sentiría llegar tus besos por la espalda. Aunque estuviese lejos, aunque pasaran los años. Sí que me llegan tus besos, con el aire de la tarde, a besarme la nuca, a hacerme cosquillas en la piel....

giovedì 6 marzo 2014

6 Marzo 2014

Serás un hombre bueno, porque has respirado que es mejor serlo que fingirlo.

Amarás a las mujeres que se cruzarán en tu corazón y las tratarás con respeto, dejando en ellas y cogiendo para tí lo mejor de cada uno. 


Cambiarán de forma tus miedos, porque no desaparecen nunca. Y crecerás sabiendo que de ellos no hay que escapar. 


Serás lo que tú quieras cuando entenderás que la vida regala y engaña a partes iguales. 


Aprenderás a conocer cuales son los momentos en los que es mejor callar y aquellos en los que tendrás que gritar con todas tus fuerzas. 


Serás un buen amigo, porque con la lealtad tatuada tú ya has nacido, y esto te lo envidio. 


Pasarán tus años sabiendo que nos hemos equivocado muchas veces, pero no te olvides, para que aprendas de los errores y no los repitas. 


Nos mirarás un día de otra manera, distinta, porque es así que se madura y nos hacemos hombres y mujeres. Saldrás por la puerta malhumorado mil veces, creerás que ya no quieres volver. Pero yo sé que estarás solo creciendo. 


Serás un hermano, para siempre. Debes recordarlo, porque nunca tendrás a nadie tan cerca. 


Sigue creciendo, no seas lo que nos esperamos. Rebélate y sorpréndenos. Podremos caminar a tu lado y sumergirte de palabras. Pero tuyos son el alma y los pensamientos. Nosotros solamente te hemos dado el cuerpo y alguna idea poco útil. Lo demás debes hacerlo tú. 


Feliz Cumpleaños, Rubén.

6 Marzo 2014

Sarai un uomo buono, perché hai respirato che è meglio esserlo che fingerlo. 

Amerai tutte le donne che incroceranno il tuo cuore e le tratterai con rispetto, lasciando a loro e prendendo per te stesso il meglio di ognuno di voi. 


Cambieranno forma le tue paure, perché quelle non spariscono mai, e crescerai sapendo che da loro non si scappa. 


Sarai quello che vuoi quando capirai che la vita regala e inganna in parti uguali. 


Imparerai a conoscere quali sono i momenti in cui è meglio tacere e quelli in cui dovrai urlare con tutte le tue forze. 


Sarai un buon amico, perché sei già nato con la lealtà tatuata, e per questo ti invidio. 


Passeranno i tuoi anni con la consapevolezza che abbiamo sbagliato tante volte, e non devi dimenticare, così imparerai dagli errori e non li ripeterai. 


Un giorno ci guarderai in modo diverso, perché è cosi che si matura e si diventa uomini e donne. Uscirai dalla porta arrabbiato mille volte e crederai di non voler tornare più. Ma io saprò che stai solo crescendo.


Sarai un fratello, per sempre, e questo devi ricordartelo, perché mai avrai nessuno così vicino. 


Continua a crescere, non essere quello che ci aspettiamo. Ribellati e sorprendici. Potremo solo camminare al tuo fianco e coprirti di parole. Ma tue sono l’anima e i pensieri. Noi ti abbiamo soltanto dato un corpo e qualche idea forse inutile. Il resto dovrai metterlo tu. 


Buon compleanno, Rubén.

venerdì 14 febbraio 2014

El testamento vital del Principe Azul



De La Bella Durmiente del Bosque (Hermanos Grimm):

“Y por fin llegó hasta la torre y abrió la puerta del pequeño cuarto donde Preciosa Rosa estaba dormida. Ahí yacía, tan hermosa que él no podía mirar para otro lado, entonces se detuvo y la besó. Pero tan pronto la besó, Preciosa Rosa abrió sus ojos y despertó, y lo miró muy dulcemente.
Entonces ambos bajaron juntos, y el rey y la reina despertaron, y toda la corte, y se miraban unos a otros con gran asombro. Y los caballos en el establo se levantaron y se sacudieron. Los perros cazadores saltaron y menearon sus colas, las palomas en los aleros del techo sacaron sus cabezas de debajo de las alas, miraron alrededor y volaron al cielo abierto. Las moscas de la pared revolotearon de nuevo. El fuego del hogar alzó sus llamas y cocinó la carne, y el cocinero le jaló los pelos al ayudante de tal manera que hasta gritó, y la criada desplumó la gallina dejándola lista para el cocido.
Días después se celebró la boda del príncipe y Preciosa Rosa con todo esplendor, y vivieron muy felices hasta el fin de sus vidas”.

En realidad lo que pasó no fue esto. 
Yo soy Azul, o Felipe, como queráis o hayáis leído, el príncipe del cuento. Sucedió que tan pronto la besé, no abrió los ojos. Sí que se despertaron los demás. El rey y la reina, la corte al completo. Los caballos y los perros cazadores. El fuego del hogar alzó sus llamas. Pero no se celebró ninguna boda, y Preciosa Rosa, con todo su esplendor, no se ha despertado todavía.
Yo la amo desde antes. Fuera del cuento yo la amaba ya. Y cuando no se despertó decidí que la amaría como siempre.
Me enfado cuando veo las miradas de los otros. En lugar de desearnos buenos días o buenas noches con los ojos le desean buena muerte. A ella que se durmió sonriendo y sonríe todavía sin haberse despertado.
Duermo cerca, para poder coger su mano cuando de noche siento frío. Porque ella tiene la piel tibia, de viva. Y respira tranquila, porque sabe que estoy ahí.
Cuando la miro veo la Rosa del cuento, que canta a los pajarillos y tiene miedo de la bruja. Las hadas no tienen mucho que hacer aquí, ningún sortilegio la puede despertar. Pero vienen a visitarla, le acarician su tez pálida y la besan en las mejillas. Vocean mientras chismorrean y le cuentan habladurías del reino, porque me han dicho que todo atraviesa su delicada corteza y se posa en un  insomne fondo que existe, dicen, aunque la duda me atenace.
Hoy he descubierto que se puede decidir como morir. No que lo quiera para Rosa, no. Ella es mi flor delicada que suspira si me alejo y me tiene atado con cadenas casi feudales. Yo la sirvo y ella me protege con su amor invisible.
Yo quisiera morir de viejo. Mientras duermo, como ella. Irme sin enterarme, sin miedo y sin dolor. A veces se lo cuento a Rosa, pero ella no responde nunca. Me gustaría saber lo que siente, si tiene miedo, si quiere irse o quedarse conmigo.
Le cuento que si la hubiera despertado con el beso me habría casado con ella. Le cuento que nos habríamos hecho viejos juntos, mirándonos las arrugas mutuamente, marchitándonos a besos con el paso de los años. Ahora ella no me ve y su recuerdo de mí es mejor que el mio.
Aunque si de viejos uno de los dos se hubiera dormido sin dormirse, si la mente hubiera comenzado a confundir memorias y palabras y nuestros nombres nos sonaran desconocidos, si los ojos hubieran dejado de conocer los rostros y las habitaciones, pero los pies hubieran sido capaces todavía de caminar y los corazones de latir, le digo que nos habríamos amado igualmente. Si hubiera perdido en el río toda mi sapiencia, sin acordarme de su nombre habría sabido que era Ella. ¿Desear la muerte por no saber como te llamas? ¿La vida está sólo en el juicio o en la piel? ¿En el sueño incalculable o en la vigilia de un demente? Si es vida allá donde empieza el primer latido, ¿no lo es hasta el último?
 Voy a hablar con Rosa a pesar de que no me responda, porque tengo que escribir mi declaración de amor por la vida, o por la muerte, depende.
A ver, amor mío, escucha bien que es importante:

En plenitud de mis facultades, actuando libremente y tras una adecuada reflexión y en base a las leyes de la naturaleza declaro que si llego a una situación en que, por mi estado físico o psíquico, no sea capaz de expresar personalmente mis decisiones sobre los cuidados y el tratamiento de mi salud a consecuencia de un padecimiento...

¿Qué padecimiento? ¿El mío?  ¿El tuyo, Rosa, si estuvieras despierta y secándome las lagrimas del que duerme sin despertarse con un beso? ¿El del que nos mira sin entender que entre nosotros hablamos con el lenguaje secreto de los que no consiguen separarse? ¿El padecimiento del que habría querido con otro hechizo quitarte la espina envenada y sacarte de tu ensueño?

...que me impida llevar una vida con independencia funcional para las actividades de la vida diaria,

¿Cuánta independencia, Rosa? Ayúdame a redactar, porque hay que ser muy preciso, si quieres que sigan las instrucciones. ¿Qué actividades? Cuando me levanto, Rosa, poner los pies en el suelo ya me cuesta. Los años no perdonan. ¿Crees que un día se podrá decidir la edad también? En la fecha del cumpleaños te bebes una infusión y a dormir de verdad por los siglos de los siglos. Ay, Rosa, no me hagas reír, que se me cae la pluma.

es mi voluntad clara e inequívoca que se me permita morir con dignidad

Esto si que me parece bien. Si uno debe nacer con dignidad, porqué no morir también. Al final, Rosa, esto es lo que más miedo nos da. Morir habiéndonos dejado por el camino lo que éramos, encontrarnos en el lecho de muerte sin poder reconocernos.

de acuerdo con las siguientes instrucciones previas:

1. Rechazo todo tratamiento que contribuya a prolongar mi vida: técnicas de soporte vital, fluidos intravenosos, pócimas y hechizos, alimentación que no sea por la boca, aporte de líquidos, magias que ayuden la respiración, solicitando una limitación del esfuerzo terapéutico que sea respetuosa con mi voluntad.

A ver si lo entiendo. Si tu hubieras firmado esto, ¿qué tendría que hacer contigo? Tú que duermes pero respiras, tú que duermes pero necesitas comer. ¡Ay!, Rosa, que dificil...
Cuando el príncipe pasó al lado de Blancanieves la vió pálida, en peligro y la besó. Ningún enano gritó “¡Déjala morir! ¡No la salves! ¡Puede ser que ya no despierte!”. Y si así hubiera sido, ¿cómo no intentarlo? Cuántas batallas perdidas en el ánimo, vencidas después armándose de coraje.
Y si un día me duermo y no despierto ya, ¿cómo sabes que no he cambiado de idea mientras me acarcias la mano tibia? Que difícil, Rosa, que difícil.

  2. Solicito unos cuidados paliativos adecuados al final de la vida: que se me administren  las pócimas que palíen mi sufrimiento físico o psíquico, los cuidados que me ayuden a  morir en paz, especialmente -aun en el caso de que pueda acortar mi vida- aquellos que    me hagan dormir hasta el final.

Pócimas, amor mío, todas las pócimas. Que si tú me ves llorar o notas arrugas de dolor en mi frente, me den todas las pócimas. Haz bailar todas las hadas alrededor de mi lecho, que me canten los pájaros desde la ventana abierta, consulta la hechicera y quema varillas mágicas por toda la habitación. Pero que no me duela, Rosa, que no me duela. Que me muera en pocos días o en muchos años, pero el dolor no debe vencer si entra en mi cuerpo roto.
Esto sí que lo quiero, mi bella durmiente, te lo pido como si fuera el aire que respiro. Tenme contigo siempre porque te amaré aunque no te des cuenta, pero defiéndeme tú que estarás despierta y que el dolor no me toque la vida.
Los hay, Rosa, sí que existen. Los hechiceros que te miran con el miedo en las entrañas y con miedo se acercan al lecho desolador. Tienen miedo de que se escape el alma y los persiga por las noches. Y con pócimas, hechizos, embrujos y consejos inspirados por la cobardía se empecinan en salvar lo insalvable. Es ignorancia, Rosa. Y falta de respeto.
Yo te respeto, amor mío. Porque tu vives durmiendo. Porque no te obligo a vivir. Respeto tu cuerpo y lo cuido. Tú eres mi flor delicada.
Y los hay también que son sabios. Miran sin miedo y sin miedo se acercan a tocar tus manos abiertas. Me preguntan, y te preguntan, aún sabiendo que no respondes, pero están seguros de que escuchas. Y no nos dejan solos entre los doseles, Rosa, eso no. Que es lo más duro. La soledad va de la mano de las ganas de morirse, eso te lo digo yo. Pero si no estamos solos, ni tú ni yo nos acordamos de nuestras penas. Los sabios nos acompañan en nuestro viaje desigual pero tan accidentado. Sin violar tu cuerpo si no es necesario. Tampoco lo harán con el mío cuando tu estés despierta y yo dormido.

3. Si para entonces las Leyes del Reino regulan el derecho a morir con dignidad mediante la “Buena muerte” , es mi voluntad morir de forma rápida e indolora, de conformidad con lo que el Reino establezca al efecto.

¡Ay, Preciosa Rosa, que difícil todo esto!. Qué miedo que me da. ¿Leyes que regulen el derecho a morir? Querrán decir, quizás, leyes que regulen el derecho a decidir quién decide, digo yo. Porque el derecho a morir ya lo tengo. Es un derecho, ¡y un deber! Vaya que sí. Pero todos, ¿eh? Todo ser vivo tiene el derecho y el deber de nacer y morir. ¡Cómo no! Pero para esto no hacen falta leyes, que yo sepa, ¿verdad, Rosa? Es que yo soy un poco ignorante, aunque sea un Príncipe Azul. Yo sólo se quererte y cuidarte.
Si lo firmo, entonces, ¿quiere decir que si me vuelvo loco se cumplirán mis “derechos”? ¿Si me duermo como tú? ¿O si me convierto en una rana y ya no soy yo? ¿Si pierdo en guerra las piernas? ¿Si el caballo me pisotea y ya no camino? ¿Tú me amarás? ¿Me querrás contigo? ¿Yo querré irme o tendré miedo de la muerte?
¡Ay, Rosa, que difícil!. Hay tantas probabilidades y circustancias que la linea que diferencia las penas es invisible como el viento.

4. Si quien se ocupa de mi asistencia  declarase que su conciencia no le permite el cumplimiento de estas instrucciones, solicito que sea sustituido por otra persona, garantizando así el  derecho a que se cumpla mi voluntad.

 Con el fín de que pueda ayudar a interpretar este documento manifiesto que, en una  situación de deterioro irreversible, sin posibilidad de futuro ni recuperación digna, no  quiero sufrir ni causar un mayor sufrimiento a las personas que me acompañen en ese    momento, ni deseo poner a mi familia en la situación de tener que decidir por mí acerca de   mi vida. Pido a quienes tengáis que atenderme que respetéis mi voluntad.

Pues claro que sufro, mi amor, desde que decidiste entregarte eternamente a los brazos de Morfeo. Qué celoso estoy de tu dios y vuestro mundo onírico. Pero no es mi cometido provocar tu ausencia deliberadamente. La Naturaleza es sabia, Rosa. Y llega hasta donde llega. Sólo entonces podemos soltarnos las manos y dejar que te vayas. No sirve gritar al universo la desesperación. El que más grita es el que más miedo tiene. Pavor a quedarse solo, pavor por no ser amado suficiente. Quien no se desgañita es el que con su silencio envuelve la conclusión de su camino. El desenlace triste y feliz al mismo tiempo. Porque no ha sido obligado a elegir. Quien no brama su muerte anunciada es el que al final se va serenamente, sin palabras, sin publicidades, con amor y con respeto.
Por eso yo no digo nada, Rosa. Porque no sirve.  Porque cada lecho y cada frente que se apoya velando son un único universo. ¿Quién sabe de nosotros lo que nosotros sabemos? ¿Y quién sabe de ti más que tú misma?
Si yo durmiera y tú me lavaras los cabellos tendría el mismo miedo que tengo ahora. ¿Aunque mi cuerpo fuera inútil y frío, doliente y dependiente, valdría menos? ¿Y si este cuerpo no tuviera mis años sino pocos, muy pocos, cuánto valdría?
¿Quién somos nosotros, mi bella durmiente, para establecer las leyes de la vida y la muerte? Te lo digo yo, que te peino cada mañana. No somos nadie. Porque las leyes de los hombres no saben de nuestras tardes. Y querrían igualdad, Rosa, cuando son minoría los que no pueden con su carga.
Por eso he decidido que no voy a firmar nada. Cuando tu te despiertes y me cuides en mi sueño sin amaneceres deja que mi cuerpo te hable. Otros como nosotros no necesitan abrir las ventanas y anunciar su desdicha. Aman hasta la extenuación, con un amor que a los ojos de otros parece egoista pero en realidad no lo es. Y con el mismo amor se despiertan, y lloran, y cuidan, y toman decisiones que nadie que no haya tocado esas sábanas puede siquiera entender. Cualquier decisión, Rosa, como nosotros.
Por eso no hablo, y te tengo solo la mano, sabiendo que te apagas despacio como la luz de una vela. Te doy las gracias por lo que me has dado en esta vida extraña, por lo que he tenido el honor de regalarte cada día.
Gracias porque nuestro cuento no ha sido como los otros; aunque las perdices me las he comido solo yo, al final hemos sido felices. Apretújame la mano, Preciosa Rosa, como sólo sabes hacer tú cuando te canso con mis cavilaciones. Que me está entrando sueño. Si he podido aburrirme a mí mismo, ¿quién sabe lo que estás pensando tú?. Deja que me tumbe aquí contigo, que tengo frío. Si no tuviera tanto miedo me gustaría dormir a tu lado otros cien años sin despertarme para poder entrar en tu cabeza. Buenas noches, amor mío. Que tengas siempre dulces sueños hasta que uno de mis besos te pueda despertar.

Il testamento biologico del Principe Azzurro



Da La Bella Addormentata nel Bosco (Fratelli Grimm):

“ Finalmente arrivò nella torre, aprì la porticina della piccola stanza dove dormiva la bella Rosaspina. Lei era lì sdraiata ed era così bella che il giovane principe non sapeva distogliere gli occhi da lei. Poi si chinò e la baciò.
Non appena l’ebbe sfiorata col suo bacio, Rosaspina aprì gli occhi, si svegliò e gli sorrise. Allora entrambi scesero dalla torre e si svegliarono il re e la regina, e tutta la corte si svegliò e tutti si guardavano con sguardo pieno di stupore. E i cavalli nel cortile balzarono in piedi e si scrollarono, e i cani da caccia saltavano e scodinzolavano e le colombe sul tetto levarono la testina di sotto l’ala, si guardarono attorno e volarono via, e le mosche ripresero a muoversi sulla parete, e il fuoco in cucina si ravvivò, si rimise ad ardere e ricominciò a cuocere il pranzo, l’arrosto riprese a sfrigolare, il cuoco diede allo sguattero quel famoso schiaffo e lo fece gridare e la serva finì di spennare il pollo. Poi furono celebrate le nozze con grande sfarzo tra il principe e Rosaspina e tutti vissero felici fino alla morte”

In realtà successe tutta un’altra cosa.
Io sono Azzurro, o Filippo, come preferite, il Principe della fiaba. Successe che appena l’ebbi sfiorata col mio bacio, Rosaspina non aprì gli occhi. Si svegliarono tutti gli altri, il re e la regina, tutta la corte si svegliò. I cavalli e i cani da caccia. Il fuoco in cucina si ravvivò e riprese ad ardere. Ma le nozze non furono celebrate, e Rosaspina, così bella da non riuscire a distogliere gli occhi da lei, non si è ancora svegliata.
Io la amo già da prima. Oltre la fiaba e da tempo io l’amavo. E quando non si svegliò decisi che l’avrei amata per sempre.
Mi irritano alcuni sguardi. Al posto di augurarci buongiorno o buona sera con gli occhi ci augurano buona morte. A lei, che si addormentò sorridendo e sorride tutt’ora senza essersi svegliata.
Dormo vicino per poter prendere la sua mano quando di notte sento freddo. Perché lei ha la pelle tiepida, da viva. E respira tranquilla, perché sa che sono lì accanto.
Quando la osservo vedo la Rosa della fiaba, che canta agli uccellini e ha paura della strega.
Le fate non hanno molto da fare qui, nessun sortilegio la può svegliare. Ma vengono a visitarla, le accarezzano il volto pallido e la baciano sulle guance. Alzano la voce mentre spettegolano e le raccontano chiacchiericci del regno, perché sostengono che tutto attraversa la sua delicata corteccia per adagiarsi in un fondo insonne, esistente, dicono loro, nonostante io nutra forti dubbi. 
Oggi ho fatto una scoperta: si può decidere come morire. Non che lo voglia per Rosa, no. Lei è il mio fiore delicato, che sospira se mi allontano e mi tiene legato con catene quasi feudali. Io la servo e lei mi protegge con il suo amore invisibile.
Io vorrei morire di vecchiaia. Mentre dormo, come lei. Andarmene senza accorgermene, senza paura né dolore. A volte lo racconto a Rosa, ma lei non risponde. Mi piacerebbe sapere cosa sente, se ha paura, se vuole andarsene o rimanere insieme a me. Non posso saperlo, e non posso decidere per lei.
Le racconto che, se si fosse svegliata con il bacio, l’avrei sposata. Che saremmo diventati vecchi insieme, guardandoci le rughe a vicenda, appassendo a furia di baciarci con il passare degli anni. Ora però lei non mi vede, e il suo ricordo di me è meglio del mio.
Le racconto che se, da vecchi, uno dei due si fosse addormentato senza dormire, se la mente avesse cominciato a confondere memorie e parole e i nostri nomi fossero diventati per noi sconosciuti, se gli occhi avessero smesso di riconoscere i visi e le stanze, ma i piedi fossero ancora stati capaci di camminare e i cuori di battere, le dico che ci saremmo amati ugualmente. Se avesse perso nel fiume tutta la mia saggezza, senza ricordare il suo nome avrei saputo comunque che era Lei.
Desiderare le morte per non conoscere il tuo nome? La vita si trova nel giudizio o nella pelle? Nel sonno incalcolabile o nella veglia di un demente? Se è vita là dove inizia il primo battito, non lo è, allora, fino all’ultimo?
Devo parlare con Rosa, anche se non mi risponde, perché devo scrivere la mia dichiarazione d’amore per la vita, o per la morte, dipende.
Vediamo, amore mio, ascolta bene perché è importante:

In pieno possesso delle mie facoltà, attuando liberamente e dopo una accurata riflessione e in base alle leggi della Natura dichiaro che se mi trovassi in una situazione in cui, per il mio stato fisico o psicologico, non fossi capace di esprimere personalmente le mie decisioni su cure e trattamenti per la mia salute, come conseguenza ad una sofferenza...

Quale sofferenza? La mia? La tua, Rosa, se fossi tu quella sveglia, mentre mi asciughi le lacrime dell’eterno dormiente? La sofferenza di chi ci guarda e non capisce che tra noi parliamo con il linguaggio segreto di quelli che non riescono a separarsi? La sofferenza di chi avrebbe voluto con un altro incantesimo toglierti la spina avvelenata e strapparti dal tuo sogno?

...che mi impedisca di avere una vita con indipendenza funzionale per le attività della vita quotidiana

Quanta indipendenza, Rosa? Aiutami a redigere, perché bisogna essere molto precisi, se vuoi che seguano le istruzioni. Quali attività? Quando mi alzo, Rosa, mettere i piedi per terra è già un’impresa. Gli anni non perdonano. Credi che un giorno si potrà decidere anche l’età?  Poter prendere, nella data del proprio compleanno, una pozione personalizzata dall’alchimista. Un infuso e via, si dorme per davvero per i secoli dei secoli. Ahi!, Rosa, non farmi ridere, che mi fai cadere il calamaio.

...è mia volontà, chiara e inequivocabile che mi si permetta di morire con dignità

Questo mi sembra giusto. Se uno deve nascere con dignità, perché non morire con essa? Alla fine, Rosa, è questo che ci fa più paura. Morire lasciandoci dietro quello che eravamo, trovarci nel letto di morte senza saper riconoscere noi stessi.

d’accordo con le seguenti istruzioni:

    1. Rifiuto ogni trattamento che contribuisca a prolungare la mia vita: tecniche di supporto vitale, fluidi intravenosi, pozioni e sortilegi, alimentazione che non sia per bocca, apporto di liquidi, magie che aiutino la respirazione, sollecitando una limitazione dello sforzo terapeutico che sia rispettoso con la mia volontà.

Vediamo se ho capito. Se tu avessi firmato questo, cosa dovrei fare con te? Tu che dormi però respiri, che dormi, ma hai bisogno di mangiare. Ahi!, Rosa, che cosa difficile...
Quando il principe scoprì Biancaneve, e la vide pallida e in pericolo, la baciò. Nessun nano urlò “Lasciala morire! Non salvarla! Forse non si sveglierà più!” E anche se così fosse stato, come non tentare? Come sarebbe finita la fiaba? Quante battaglie perse nell’animo, vinte poi, con l’audacia...
E se un giorno mi addormentassi e non mi svegliassi più, come saprai che non ho cambiato idea, mentre mi accarezzi la mano tiepida? Com’è difficile, Rosa, com’è difficile...

    2. Sollecito le cure palliative adeguate alla fine della vita: che mi siano amministrate le pozioni che possano palliare la mia sofferenza fisica e psichica, le cure che mi aiutino a morire in pace, specialmente -nonostante possano accorciare la mia vita- quelle che mi possano fare dormire fino alla fine.

Pozioni, amore mio, tutte le pozioni. Che se mi dovessi vedere piangere o notassi rughe di dolore sulla mia fronte, mi vengano date tutte le pozioni. Fai ballare le fate attorno al mio letto, che mi cantino i passeri dalla finestra aperta, consulta lo stregone e brucia bastoncini magici per tutta la stanza. Ma che non senta niente, Rosa, non devo sentire niente. Che possa morire in pochi giorni o in tanti anni, ma il dolore non dovrà vincere se riuscisse ad entrare nel mio corpo rotto.
Questo sì lo voglio, mia bella addormentata, te lo chiedo come fosse l’aria che respiro. Tienimi sempre con te, perché ti amerò anche se non te ne accorgerai, ma difendimi tu, che sarai sveglia, e che il dolore non mi sfiori la vita.
Ci sono, Rosa, esistono. Gli stregoni che ti guardano con la paura nelle viscere, e con paura si avvicinano al letto desolante. Hanno paura che l’anima possa scappare e perseguitarli di notte. Con pozioni, incantesimi, stregonerie e consigli ispirati dalla codardia, si ostinano a salvare l’insalvabile. È ignoranza, Rosa. E mancanza di rispetto.
Io ti rispetto, amore mio. Perché tu vivi dormendo. Perché non ti obbligo a vivere. Rispetto il tuo corpo e me ne prendo cura. Tu sei il mio fiore delicato.
Ci sono anche quelli saggi. Guardano senza paura, e senza paura si avvicinano a toccare le tue mani aperte. Mi fanno domande, e domandando anche a te, nonostante sappiano che non rispondi, ma sono sicuri che ascolti. E non ci lasciano soli sotto il baldacchino, Rosa, quello no. E’ la parte più dura. La solitudine dà sempre la mano alla voglia di morire, dammi retta. Ma se non rimarremo soli, né tu né io ci ricorderemo delle nostre pene. I saggi ci accompagnano nel nostro viaggio disuguale, ma così similmente accidentato. Senza violare il tuo corpo, se non è necessario. Non lo faranno nemmeno con il mio quando tu sarai sveglia e io addormentato.

     3. Quando le Leggi del Regno regoleranno il diritto a morire con dignità mediante la buona morte, è mia volontà morire in maniera rapida e indolore, in conformità con quello che stabilisca il Regno a proposito.

Ahi!, Rosaspina, che difficile tutto questo! Come mi fà paura. Leggi che regolano il diritto a morire? Vorranno dire, probabilmente, leggi che regolino il diritto a decidere chi decide, penso io. Perche il diritto a morire ce l’ho già. È un diritto, ma anche un dovere! Diamine! Ma per tutti, eh? Tutti gli esseri viventi hanno il diritto e il dovere di nascere e morire. Come no! Ma per questo non servono leggi, che io sappia, vero, Rosa? Sarà che sono un po’ ignorante, nonostante sia un Principe Azzurro. Io so soltanto amarti e prendermi cura di te.
Se lo firmo, allora, vuol dire che se impazzissi si compiranno i mie “diritti”? Se mi addormentassi come te? O se mi trasformassi in una rana e non fossi più io? Se perdessi in guerra le gambe? Se il cavallo mi spezzasse le ossa sotto i caschi e non camminassi più? Tu mi amerai? Mi vorrai con te? Io vorrò andarmene o avrò paura della morte?
Ahi, Rosa, com’è difficile! Ci sono talmente tante probabilità, che la linea che separa i tormenti è invisibile come il vento.

     4. Se chi si occupa della mia assistenza dichiarasse che la sua coscienza non gli permette il compimento di queste istruzioni, sollecito che sia sostituito per un’altra persona, garantendo così il diritto di compiere la mia volontà.

Al fine di poter aiutare l’interpretazione di questo documento, manifesto che, in una situazione di deterioro irreversibile, senza possibilità di futuro né recupero degno, non voglio soffrire né causare maggiore sofferenza alle persone che mi accompagnino in quel momento, né desidero mettere la mia famiglia nella situazione di dover decidere per me circa la mia vita. Chiedo, a chi si prenda cura, di me di rispettare la mia volontà.


Certo che soffro, amore mio, da quando hai deciso di consegnarti in eterno alle braccia di Morfeo. Quanto solo geloso del tuo dio e il vostro mondo onirico... Ma non è compito mio provocare la tua assenza deliberatamente. La natura è saggia, Rosa. Arriva fin dove arriva. Soltanto allora possiamo sciogliere il nodo delle nostre mani e lasciarci andare. Non serve urlare all’universo la disperazione. Chi urla di più è quello che è più spaventato. Paura di rimanere da solo, paura di non essere amato abbastanza. Chi non strilla è quello che con il suo silenzio avvolge la conclusione del suo cammino. L’epilogo triste e felice allo stesso tempo. Perché non è stato obbligato a scegliere. Chi non grida la sua morte annunciata è quello che alla fine se ne va serenamente, senza parole, senza propaganda, con amore e con rispetto.
Per questo io non dico niente, Rosa. Perché non serve. Perché ogni letto e ogni fronte che ci si appoggia vegliando sono  un unico universo. Chi sa di noi quello che noi sappiamo? E chi sa di te più di te stessa?
Se io stessi dormendo e tu mi lavassi i cappelli avrei la stessa paura che ho adesso. Ma se il mio corpo fosse inutile e freddo, dolente e dipendente, varrebbe di meno?  E se questo corpo non avesse i miei anni bensì pochi, molti di meno, quanto varrebbe?
Chi siamo noi, mia bella addormentata, per stabilire le leggi della vita e della morte? Te lo dico io, che ti pettino ogni mattina. Non siamo nessuno. Perché le leggi degli uomini nulla sanno dei nostri pomeriggi. E vorrebbero uguaglianza per tutti, Rosa, mentre sono molti di meno quelli che non possono con il suo fardello.
Per questo ho deciso di non firmare niente. Quando  ti sveglierai e ti prenderai cura di me nel mio sonno senza albe, lascia che il mio corpo ti parli. Altri come noi non hanno bisogno di aprire le finestre e annunciare la sua sfortuna. Amano fino allo sfinimento, con un amore che davanti agli occhi degli altri sembra egoista, ma che in realtà non lo è. E con lo stesso amore si svegliano, e piangono, e curano, e prendono decisioni che nessuno che non abbia prima toccato quelle lenzuola può capire. Qualunque decisione, Rosa, come noi.
Per questo non parlo, e ti tengo soltanto la mano, sapendo che ti spegni piano come la luce di una candela.  Ti ringrazio per quello che mi hai dato in questa strana vita, per quello che ho avuto l’onore di regalarti ogni giorno.
Grazie, perché la nostra fiaba non è stata come le altre, anche se alla fine abbiamo vissuto felici e contenti. Stringimi la mano, Rosaspina, come solo sai fare tu, quando ti stanco con le mie elucubrazioni. Mi sta venendo sonno. Se sono riuscito ad annoiare me stesso, chi sa cosa stai pensando tu? Lascia che mi sdrai qui con te, che sento freddo. Se non avessi così paura, mi piacerebbe dormire al tuo fianco altri cento anni, senza mai svegliarmi, per poter entrare nella tua testa. Buona notte, amore mio. Ti auguro bei sogni,  sperando che un giorno uno dei miei baci ti possa svegliare.