mercoledì 20 maggio 2015

Cenerentola e la neve

http://lucbannon.deviantart.com/



Il principe le disse di mandarla a prendere, ma la matrigna rispose:
– Ah no, è troppo sporca, non può farsi vedere – .
Ma egli lo volle assolutamente e dovettero chiamar Cenerentola.
Ella prima si lavò ben bene le mani e il volto, poi andò a inchinarsi davanti al principe, che le porse la scarpa di cristallo. Allora ella si mise a sedere sullo sgabello, tolse il piede dal pesante zoccolo e l’infilò nella scarpetta: le stava a pennello. E quando si alzò, e il re la guardò in viso, egli riconobbe la bella fanciulla con cui aveva danzato e gridò: – Questa è la vera sposa! – La matrigna e le due sorellastre si spaventarono e impallidirono dall’ira, ma egli mise Cenerentola sul cavallo e se ne andò con lei. Quando passarono accanto al nocciolo, le due colombelle bianche gridarono:
– Volgiti, volgiti, guarda:
non c’è sangue nella scarpa,
che non è troppo piccina.
Porti a casa la vera sposina.
                               …………………………………………..



Era passato più di un mese da quando non possedeva più le chiavi di casa. Aveva pensato di chiamare qualcuno e farsi aprire la porta. Ma era molto più grande il terrore di essere scoperta. Non poteva usare il telefono perché lui controllava le chiamate.

Si era seduta vicino alla finestra, leggermente nascosta dalle tende, per guardare la nevicata. Era meraviglioso. Aveva aperto i vetri appena per far entrare l’aria fresca e pulita del pomeriggio e qualche fiocco di neve spinto dal vento all’interno della cucina si scioglieva sul pavimento.

Respirò profondamente ad occhi chiusi, anche se era certa che dopo avrebbe sentito più intensamente l’odore che aleggiava all’interno della casa.

C’era una volta Cenerentola, che venne rinchiusa e tutto quello che c’era nel castello rimase chiuso con lei. Tutto. Per sempre.

La spazzatura si ammassava sotto le finestre della cucina. Il Principe non aveva voluto una casa con balcone. Sosteneva che era solo un vantaggio per i ladri. Così, i sacchetti si ammucchiavano un po’ dappertutto e Cenerentola apriva le imposte di sera per ventilare ogni angolo.

Mentre chiudeva la tapparella sentì il cellulare. Era lui, vedeva il suo viso sullo schermo e rispose obbediente.

“Pronto?”. “Arrivo”. “Ok”. E mise giù.

Zoppicando lentamente andò in bagno, si spogliò ed entrò in doccia. Sapeva di avere ancora una buona mezz’ora a disposizione, prima che il Principe rientrasse. Aprì l’acqua calda e la fece scorrere con sollievo sulla pelle nuda. In alcuni punti la temperatura le dava un po’ fastidio. Sui lividi delle cosce, sulle nocche screpolate delle mani e quella sera, particolarmente, sulle labbra. Erano tutte arrossate, anche sui bordi, come se avesse messo il rossetto come un pagliaccio. Cercò di evitare la caduta diretta dell’acqua su quei punti. Si insaponò con cura, con il bagnoschiuma che lui adorava. Si capiva da come le consumava il collo a furia di sentire il profumo quando l’abbracciava brusco entrando in casa.

L’accappatoio era vecchissimo e ruvido. Aveva tanti anni quanti lei. All’inizio vivevano d’aria e amore. Di pane e carezze. Di scarpette di cristallo piene di sogni. Ma mentre il Principe risparmiava e risparmiava, Cenerentola non vedeva un centesimo. Il tempo avrebbe portato castelli e desideri compiuti. Lui promise e lei credette ad ogni parola.

Si tamponò i capelli con la spugna. Non voleva consumare corrente con il phon. Si sarebbero asciugati da soli, anche se faceva un po’ freddo. Almeno avrebbero mantenuto il profumo del balsamo, e comunque a lui piacevano così, bagnati e morbidi.

Cercò gli slip. Forse quando le avrebbe ridato le chiavi, sarebbe andata a comperare qualche altra mutandina. Ne aveva appena tre e non ricordava che fine avessero fatto le altre. Mise un po’ di crema sulle mani screpolate e aspettò.

Fu tutto abbastanza veloce. Il rumore delle chiavi, la porta che sbatte. Il suo Principe che l’annusa voracemente e lei che si lascia fare sdraiata nel lettone. Poi, nuvole di sangue negli occhi e un sonno lungo un’ora che piomba all’improvviso.

Quando Cenerentola si svegliò nevicava ancora. In fondo non era passato poi così tanto tempo. Si alzò e cercò qualche vestito nell’armadio. Era un armadio bellissimo. Antico davvero, verniciato con oli speciali e tappezzato internamente con una morbida carta vellutata bianca e rossa. Adorava quell’armadio, sapeva d’altri tempi, magari felici, e soprattutto lontani da loro.

Ogni scaffale era ordinatissimo, i capi divisi con criteri solo a lei conosciuti. Anche se il suo Principe prendeva qualcosa ogni tanto e praticamente ad occhi chiusi, Cenerentola apriva con diligenza le grandi ante e ricollocava gli abiti nel posto esatto dove dovevano essere.

Nella sua parte di armadio c’era ben poco. Da molti mesi non usciva da casa se non per fare qualche spesa al supermercato o quando portava il piccolo a scuola, quindi i suoi vestiti erano pochi. Poi, l’ultimo mese, da quando lei l’aveva fatto arrabbiare, non aveva più nemmeno messo piede sul pianerottolo.

Si vestì con un pantalone della tuta e una felpa. Ormai nemmeno i reggiseni erano necessari avendo perso diversi chili. Il suo Principe era sicuramente contento. Senz’altro si compiaceva di non fare nessuna fatica a prenderla in braccio.

In cucina il suo Principe mangiava già. Che stupida. Aveva portato qualcosa da fuori e lei non se n’era nemmeno accorta dei sacchetti della spesa quando era entrato. Scaldò la sua porzione mentre lui si alzava ed usciva dalla stanza senza proferire parola. Fece appena in tempo a mangiare qualche boccone che arrivò ancora, da dietro le spalle, le tolse il piatto lanciandolo sul pavimento dove scoppiò in mille pezzi, e con la stessa forza il suo Principe la trascinò per terra fino alla camera da letto.

Dopo qualche ora aprì gli occhi. Si era addormentata un’altra volta. Chissà come mai succedeva così spesso ultimamente. Si ricordò che in cucina era ancora tutto da sistemare. Ormai erano le uniche cose che riusciva a fare. Mettere in ordine la cucina, riempire sacchetti di spazzatura da appoggiare sotto la finestra, aprire gli infissi, docciarsi ancora e tornare a letto. Forse per quello la casa puzzava in quel modo. O era solo una sua percezione. Lui non diceva niente, non si lamentava. Magari era lei ad immaginarlo, l’odore.

Una volta sdraiata di nuovo, sentì che le pizzicavano le braccia e le faceva un po’ male la testa. Il suo Principe diceva sempre che erano fantasie, che era suggestionata, che in realtà non aveva niente. Che doveva convincersi a prendere quelle pastiglie. Ma Cenerentola non voleva, altrimenti avrebbe dimenticato, prima o poi, il suo bambino. E lei non voleva dimenticare il suo visino dolce. E i sorrisi, e la sua manina morbida e calda mentre andavano a scuola.

Erano stati tanto insieme, sempre chiusi in casa. Ma il piccolo non sembrava accorgersene, perché aveva la mamma tutta per sé. E loro si abbracciavano e si baciavano, e il papà non la toccava finché il loro piccino non era a letto.

C’era una volta un giorno in cui il Principe decise di portarlo a scuola. “Ci penso io”, disse. E Cenerentola sentì un tonfo al cuore, ma lo lasciò andare.

Quel giorno tornò senza il loro figlio. “È in ospedale”, disse, “ti porto là”. E trovò il suo bambino già addormentato, coperto con un lenzuolo. Sotto c’era il suo visino violaceo e le mani morbide, fredde come il ghiaccio. Si spezzò una corda, cadde una montagna, si ruppe in mille pezzi il vetro di cui sono fatte le viscere di una mamma. E il buio calò dentro, per sempre.

“Ma lui lo amava come me”, si diceva come un mantra tutte le sere, da allora. E anche se il suo Principe fischiettava già dopo una settimana, lei sapeva che in fondo era dispiaciuto. Sicuramente. Era stato lui a volerlo, così tanto da ricordarle tutti i giorni, da quando erano insieme, che il suo utero doveva pur servire a qualcosa. Certo che lo amava, il bambino.

Per qualche mese tutto si era ridotto a niente. La casa cadeva a pezzi, il mondo cadeva a pezzi. Ogni cosa intorno a sé aveva perso il senso. Così decise che doveva uscire, camminare, respirare.

E l’aveva conosciuto.

In quei giorni il suo Principe non aveva ancora portato via le chiavi. Chiamava in continuazione per accertarsi che fosse in casa, ma Cenerentola aveva scoperto che per un paio di ore al giorno, sempre le stesse, il telefono non suonava mai. E decretò, in un accenno di audacia, che sarebbero state le sue ore di libertà.

Azzardò senza pensarci ad accettare un caffè. Non le era mai capitato di uscire da sola con un uomo che non fosse suo marito. E questo le diede improvvisamente un brivido di risolutezza, che riuscì a spazzare per un attimo il viso dolce e le mani morbide che tormentavano i suoi pensieri da tanto tempo.

Mentre bevevano il caffè, lo studiava nascosta dietro la tazzina. La postura delle mani e dei piedi quando si sedeva, il modo di togliere la sciarpa e sfilarsi il giubbotto. Il percorso delle gocce di pioggia che scivolavano giù dai capelli e scendevano lungo il collo. Il movimento della lingua sulle labbra dopo ogni sorso di caffe. Le sembrava di essere uscita dal proprio corpo e osservare la scena da lontano, da un altro tavolino, dall’esterno del locale, attraverso i vetri della porta.

Parlavano muovendo la bocca, ma dicendo tante altre cose con gli occhi. Lui sapeva tutto, sicuramente, ma lei non si sentiva imbarazzata. Era una sensazione strana e sensuale. Sentiva il profumo che arrivava dalla sua camicia e pensò assurdamente che non riusciva ad indovinare quale detersivo usasse, perché era da un po’ che non faceva nemmeno le lavatrici.

Sentì il filo carico di elettricità che accorciava le distanze, sopra le tazzine, parlando sempre più vicini. E, non si sa in quale momento, si trovò con delle labbra grandi e delicate che aprivano la sua bocca mentre assaporava il caffè da un’altra lingua. Fu un attimo. Un’implosione rumorosa dentro di sé. L’universo per un attimo concentrato sulle proprie labbra.

Un altro sorso di caffè e un sorriso. Forse il primo dopo settimane.

Poi il boato. Si aprì con forza la porta del bar. Stupida, stupida, era così vicino a casa quel bar…

Con incredibile compostezza e controllo il suo Principe la portò fuori dal locale. La mano talmente stretta sul braccio che i lividi sarebbero durati due settimane. Ma di quel momento lei avrebbe rammentato solo il calore sulle labbra e il sapore del caffè.

C’era una volta Cenerentola, che non ricordava più niente. Solo che le chiavi erano sparite, rubate da quella voce che non urla mai ma a cui non si può disubbidire.

Gli diceva tutti i pomeriggi che se ne pentiva amaramente. Ma poi si rifugiava tra le lenzuola sporche mentre il suo Principe andava chissà dove tutte le sere e non tornava più.

Nel cassetto del comodino aveva un piccolo ciuccio che lui non aveva mai visto. Il suo Principe, per liberarla dai ricordi, aveva buttato tutte le cose del bambino. Ma lei aveva premurosamente nascosto i suoi due piccoli tesori. Un sonaglio e un ciuccio.

Cenerentola lo metteva in bocca tutte le sere per addormentarsi e teneva stretto in mano il sonaglio, senza far rumore. E pensava al viso del suo bambino, che piano piano spariva nei ricordi, svanendo come una nuvola di fumo. Pensava al caffè e al sapore diverso che gli dà un’altra lingua. Pensava al bagnoschiuma, che stava quasi finendo e che il suo Principe si sarebbe sicuramente ricordato di comperare. Pensava alla finestra della cucina, che era da chiudere perché stava ancora nevicando.

C’era una volta Cenerentola, che si addormentò finalmente e sognò, come tutte le notti, che il Principe le riportava la scarpetta di cristallo perduta.

martedì 12 maggio 2015

Cenicienta y la nieve

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"El hijo del rey insistió en verla, pero la madre le replicó: 

-No, no, está demasiado sucia para atreverme a enseñarla. 

 Se empeñó sin embargo en que saliera y hubo que llamar a la Cenicienta. 
 Se lavó primero la cara y las manos, y salió después a presencia del príncipe que le alargó el zapato de cristal; se sentó en su banco, sacó de su pie el pesado zueco y se puso el zapato que le venía perfectamente, y cuando se levantó y le vio el príncipe la cara, reconoció a la hermosa doncella que había bailado con él, y dijo: -Esta es mi verdadera novia.
 
 La madrastra y las dos hermanas se pusieron pálidas de ira, pero él subió a la Cenicienta en su caballo y se marchó con ella, y cuando pasaban por delante del árbol, dijeron las dos palomas blancas:

 Sigue, príncipe, sigue adelante
             sin parar un solo instante,
             pues ya encontraste el dueño
             del zapatito pequeño."

                                                     ........................................................................

 Hacía ya tiempo que no tenía las llaves de casa. Había pensado en llamar a alguien que abriera la puerta. Pero pesaba más el miedo de ser descubierta que las ganas de libertad. No podía usar el telefono porque él controlaba las llamadas.

Se sentó al lado de la ventana, escondida detrás de las cortinas. Quería ver nevar. Abrió un poco la ventana para que entrara el aire fresco y limpio de la tarde, y algunos copos de nieve irrumpieron con el viento para deshacerse en el suelo de la cocina. Acercó la nariz a la rendija e inspiró profundamente con los ojos cerrados. Sabía que, después de haber respirado el frío cortante del exterior, sentiría aún más el olor que flotaba dentro de la casa.

Érase una vez un día en el que Cenicienta fué encerrada y todo lo que había en el castillo quedó encerrado con ella. Todo. Para siempre.

La basura se acumulaba bajo las ventanas de la cocina. El Príncipe no había querido balcón. Por miedo a los ladrones, decía. Para que no entrase nadie. Las bolsas negras se amontonaban en los rincones y Cenicienta abría todas las noches la ventana para ventilar las esquinas.

Mientras bajaba las persianas oyó el teléfono. Su rostro aparecía en la pantalla y respondió obediente.

“¿Si?”. “He salido”. “Hasta luego”. Y colgó.

Cojeando silenciosa fue hasta la ducha, se desnudó y se metió dentro. Sabía que aún tardaría media hora en llegar. Su Príncipe. Reguló el agua caliente y la dejó resbalar aliviada sobre la piel desnuda. En algunas partes del cuerpo la temperatura le molestaba. En los moratones de los muslos, en los nudillos irritados y secos, y esa tarde, en especial, le dolían los labios. Rojos, calientes, como si hubiese dibujado una sonrisa de payaso con el pintalabios. Intentó evitar que el agua cayera directamente sobre ellos. Se enjabonó con esmero, con el gel que él le traía y que le gustaba tanto. Cuando entraba por la puerta se lanzaba sobre ella y le consumía el cuello de tanto respirar su pefume durante los angostos y bruscos abrazos.

Se puso el albornoz, áspero y viejo. Tenía tantos años como ella. Al principio vivían de aire y amor. De pan y caricias. De zapatos de cristal repletos de sueños. Pero mientras el Príncipe guardaba y guardaba, Cenicienta no veía ni un céntimo. El tiempo traería castillos y deseos cumplidos. Él prometió y ella creyó hasta la última palabra.

Se quitó la humedad del pelo con la toalla para no consumir electricidad. Se habría secado solo a pesar del frío. Además, a él le gustaba más así, el pelo húmedo y suave.

Buscó las bragas. Cuando le hubiera devuelto las llaves tenía que salir a comprar nuevas. Le quedaban solo tres en el cajón y no se acordaba dónde habían ido a parar las otras. Se puso crema en las manos secas y esperó.

Todo fué muy rápido. El ruido de las llaves, la puerta que da un golpe. Su príncipe que le olfatea hambriento el cuello y ella que se deja hacer tumbada en la cama. Nubes de sangre en los ojos y un sueño imprevisto que dura una hora.

Cuando Cenicienta se despertó todavía nevaba. Al fín y al cabo no había pasado mucho tiempo. Se levantó y buscó algo de ropa. Era un armario muy bonito. Antiguo, pero de verdad, barnizado con aceites especiales y tapizado por dentro con papel de terciopelo rojo y blanco. Le encantaba aquel armario, que sabía de otros tiempos, más felices, quizás, y lejanos de ellos.

Cada estante mantenía un orden preciso. Las prendas estaban dividas por principios que sólo ella conocía. Y cuando su Príncipe cogía atuendos de vez en cuando y casi a ojos cerrados, Cenicienta abría las grandes puertas y volvía a colocarlo todo en el lugar exacto donde debía estar.

Su parte del armario estaba casi vacía. Hacía ya mucho tiempo que no salía de casa y antes lo hacía sólo para comprar alimentos o llevar al niño a la escuela. En el último mes, desde que ella lo había hecho enfadar, nisiquiera sacaba un pie al rellano.

Se puso un chándal. Ya no le servían los sujetadores, se había quedado tan delgada que seguramente su Príncipe estaría contento porque podía cogerla en brazos sin dificultad. Después del embarazo no había querido tocarla hasta que los kilos de más habían desaparecido.

En la cocina su Príncipe estaba cenando. Qué tonta. Había traido comida y ella no había sido capaz ni de darse cuenta de las bolsas que llevaba en la mano entrando por la puerta.

Calentó su plato mientras él se levantaba y salía de la cocina sin decir una palabra. Le dió tiempo a sentarse y comer sólo algunas cucharadas porque volvió a entrar. Su Príncipe cogió el plato y lo lanzó al suelo, rompiéndolo en mil pedazos y con la misma energía la arrastró por las baldosas de toda la casa hasta la habitación.

Al cabo de unas horas abrió los ojos. Se había dormido otra vez. Quién sabe porqué le sucedía tan a menudo últimamente. Se acordó que la cocina estaba por limpiar. Eran las únicas cosas que conseguía hacer ya. Ordenar la cocina, llenar bolsas de basura para apoyarlas bajo la ventana, abrir los batientes, ducharse y volver a la cama. ¿Que fuera por eso que la casa olía de esa manera?. ¿O eran imaginaciones suyas?. Él no decía nada, no se quejaba. A lo mejor era ella que se lo inventaba, el olor.

Cuando se volvió a tumbar sintió que le picaban los brazos y le dolía la cabeza. Su Príncipe decía siempre que eran fantasías, sujestiones, que no tenía nada. Que debía tomarse las pastillas. Pero Cenicienta se negaba porque, antes o después, habría olvidado a su niño. Y ella no quería olvidar su carita dulce. Ni sus sonrisas, ni su mano suave y caliente mientras caminaban hacia la escuela.

Estaban casi siempre encerrados en casa. Pero al pequeño no parecía importarle. Su madre era su mundo, no necesitaba nada más. Y se abrazaban, se besaban y el papá no la tocaba hasta que no lo acostaba en su cuna.

Érase una vez un día en el que el Príncipe decidió acompañarlo a la escuela. “Lo llevo yo”. Y el corazón de Cenicienta tropezó con una piedra oscura. Pero los dejó ir.

Aquel día volvió sin su hijo. “Está en el hospital”, dijo, “te acompaño”.

Hallò su niño ya dormido, arropado con una sábana. Apartándola con suavidad pudo besar su carita violácea y las suaves manos frías como el hielo. Se rompió una cuerda dentro de su alma; cayó una montaña; se partió en mil pedazos el cristal del que están hechas las vísceras de una madre. Y la oscuridad se posó dentro, para siempre.

“Él lo amaba como yo”, se decía todas las noches desde entonces. Su Príncipe silbaba, ya a los dos días, pero ella estaba segura que sentía el mismo dolor. Porque el hijo lo había querido él, tanto como para recordarle todos los días desde el matrimonio que su útero servía para algo. Claro que lo amaba, su niño.

Durante algunos meses todo se había reducido a nada. La casa se le caía encima, el mundo se le caía encima. Cada cosa había perdido su sentido. Decidió que tenía que salir, caminar, respirar.

Y entonces lo conoció.

En aquellos días, su Príncipe no se había llevado todavía las llaves. Llamaba continuamente para asegurarse que estuviese en casa. Pero Cenicienta había descubierto que durante un par de horas, siempre las mismas, el telefono permanecía silencioso. Y sentenció, en un destello de audacia, que habrían sido sus dos horas de libertad.

Se arriesgó sin pensar y aceptó un café. Nunca se había tomado un café sola con otro hombre que no fuese su marido. Llena de osadía se sintió fuerte y el coraje se llevó como el viento, durante un momento, la carita dulce y las manos suaves que la torturaban desce hacía tanto tiempo.

Mientras beb
ían el café lo estudiaba escondida detrás de su taza. La postura de las manos y de los pies cuando se sentaba, la manera de quitarse la bufanda y el abrigo. El recorrido de las gotas de lluvia que se deslizaban desde la punta de los cabellos, pasando por el cuello, hasta desaparecer dentro de la camisa. El movimiento de la lengua sobre los labios después de cada sorbo de café. Era una imagen con una sensualidad tan olvidada que le parecía verla desde fuera de su propio cuerpo, observando la escena de lejos, desde otra mesa, desde el exterior del local, a través de los cristales.

Hablaban moviendo la boca, pero diciendo muchas otras cosas con los ojos. Él sabía todo, estaba segura, pero no se avergonzaba. Le llegaba el perfume de su ropa bien planchada y pensó absurdamente que no conseguía adivinar que detergente usaba, porque hacía ya mucho tiempo que ni siquiera ponía la lavadora.

Sintió el cable imaginario y cargado de electricidad que reducía la distancia entre las tazas y las bocas, cada vez más cercanas. Y, sin saber cómo, se encontró con unos labios grandes y delicados que habrían los suyos buscando el sabor del café que empapaba su lengua. Fue una explosión, dentro de sí, aunque le pareció que el estallido se habría podido oir a kilómetros de distancia. Todo el universo se había concentrado entre dos bocas. Sonrió por primera vez desde hacía muchas semanas.

Oyeron un fuerte retumbo, esta vez era la puerta del bar que se habría con rabia. Tonta. Que tonta había sido. Esa cafetería estaba tan cerca de casa...

Con increíble moderación y control su Príncipe la sacò del bar. Le sujetaba el brazo con fuerza, los hematomas le durarían dos semanas. Pero, mucho más tarde, de aquel momento sólo recordaría la ligera presión en los labios y el sabor del café.

Érase una vez Cenicienta, que ya no se acordaba de casi nada. Sólo que las llaves habían desaparecido, robadas por aquella voz que no grita nunca pero que no se puede desobecer.

Le repetía mil veces por las tardes que se arrepentía, pero luego se refugiaba entre las sábanas sucias cuando cada noche su Príncipe se iba quién sabe donde para no volver.

En el cajón de la mesita tenía un pequeño chupete. Su Príncipe quiso liberarla tiempo atrás de todos los recuerdos del niño haciendo desparecer cada cosa. Pero ella había escondido con cuidado dos pequeños tesoros. Un sonajero y un chupete.

Cenicienta se lo ponía en la boca todas las noches para dormir y con la mano aferraba el sonajero sin hacer ruido. Y pensaba en el rostro de su hijo, que despacito desaparecía entre los recuerdos, disolviéndose como una nube de humo. Pensaba al café y al sabor diferente que le da otra boca. Pensaba al gel de ducha, que estaba acabándose y que su Príncipe seguramente se acordaría de comprar. Pensaba a la ventana de la cocina, que tenía que cerrar porque estaba nevando todavía.

Érase una vez Cenicienta, que consiguió dormirse y soñó, como todas las noches, que el Príncipe le traía su zapatito de cristal perdido.



martedì 24 marzo 2015

Uccelli migratori



  

Il cielo è azzurro. Tanto azzurro come non l’ho mai più visto da nessun’altra parte. Sdraiata sul bordo della piscina guardo in alto. Una mano dentro l’acqua trasparente e fresca e l’altra sotto la nuca. Mio fratello è seduto accanto a me, con le gambe che sguazzano buttandoci addosso goccioline ghiacciate. Anche lui guarda in alto, con le sue grandi dita a fare da visiera. “Guarda là” dice, indicando un punto da qualche parte in mezzo al vasto cielo. “Quella è la mamma dell’aquilotto. Vedi come lo osserva da lontano? Lo cura a distanza. Così lui impara da solo a volare e a cacciare.”

L’aquilotto ci passa sopra le teste facendo dei tozzi cerchi e scende maldestro verso i campi cercando chissà quale coniglio sbadato. Mamma aquila la trovo solo dopo qualche minuto di ricerca disperata. Un punto minuscolo e altissimo, verso la collina, fluttua immobile sorvegliante e paziente.

C’è un sole che spacca le pietre. E quell’aria secca e pulita, che non ha profumi se non quello delle piante aromatiche dell’orto. E il vento, che a casa mia c’è sempre. In estate ti secca la gola e la pelle, asciugandoti pietoso quando esci dalla piscina. In inverno taglia mani e labbra, e riesce a infilarsi fin sotto la sciarpa e il cappello congelandoti le orecchie. Da me freddo e caldo sono cordiali. Non arrivano ad attraversare la pelle. Ti avvolgono e ti accarezzano, danzando intorno burleschi, ma senza brividi né sudore.

Guardo le aquile e penso che vorrei anch’io volare lontano e cercarmi il cibo da sola. Penso alle offerte di lavoro. Qui ho appena un titolo in mano, poca esperienza e la sola possibilità di un lavoro eternamente precario. Non conosco la lingua e non ho mai messo piede in quel paese. Ma non ho paura. Semmai un po’ di rimorso, perché temo non sia il momento adatto per scappare via. Mi tuffo nel acqua isolandomi dai rumori di casa. Nel silenzio ovattato della piscina immagino di avere le ali e nuoto ad occhi chiusi in cerchio. Me ne andrò. Ho deciso, come decido sempre tutto, dopo una breve riflessione.

In aeroporto ho le valigie più grandi che abbia mai visto. Sono pesanti, hanno dentro ogni cosa di me. Non so dove vado ne quando tornerò e le ho riempite come se dovessi stare lontana anni ed anni. Così sono capitata qui. In tempi dove di stranieri ce n’erano pochi. Abbiamo quasi inaugurato l’alba degli infermieri immigrati. Domanda e offerta in perfetto equilibrio.

Il primo ricordo risale all’arrivo a Malpensa. Le valigie perse di qualcuno, il terrore di non essere capiti. Poi un pulmino. E fuori dal finestrino l’autostrada di sera, che scorre velocissima, piena di luci e di alberi. Ero talmente eccitata da non sentire paura, talmente affidata al mio destino che ripensandoci mi sento folle. Mentre il paesaggio si riflette spedito nel vetro dei miei occhiali, penso che a casa mia non ho mai visto così tante macchine e tanti alberi messi insieme.

Da me le strade sono lunghi serpenti grigi stesi al sole sopra un tappeto polveroso. Le poche macchine non hanno motivo di essere svelte la sera e vagano quasi solitarie tra le colline di ulivi e viti. Si sta in paese, la sera. E in mezzo alle file chilometriche di oleandri tra paese e paese volano soltanto civette e pipistrelli. Loro non migrano quasi mai. E quando lo fanno è per cercare cibo, trasferendosi insieme ai flussi capricciosi dei roditori. Oppure i giovani gufi, che partono alla ricerca di nuovi nidi. Da me le colline secche e piene di cespugli legnosi sono perfette per i nidi. È vero che ogni essere vivente ha un suo posto nel mondo che attende il suo arrivo. Anch’io ci sono arrivata sorvolando oleandri e ulivi. Sorvolando il mare e perdendo anche qualche piuma nel tentativo.

Per qualche giorno ci sono stati turbinii e montagne di carte, firme, bolli e permessi, oramai agli sgoccioli, perché una nuova Europa compariva davanti a noi mentre sfumava la Lira nei suoi ultimi mesi di vita. Abbiamo camminato per giorni in una città ignota che brulicava di gente e novità. Finché ci siamo tutti separati. Una volta passata la paura delle cose sconosciute, quando si vola da soli, un po’ spennati e un po’ coraggiosi, ognuno ha pensato per sé.

In mezzo alla corsia camminavo veloce, con il dizionario sempre in tasca. E nella mia stanza quando non lavoravo non facevo altro che ascoltare musica e leggere. Riviste di ogni genere e piccoli libri. E nelle cuffie migliaia di parole. Cantavo. A voce bassa, però. Alcune canzoni le risento ancora e le canto come allora, travisate e senza senso. E sorrido perche le capivo così, un po’ a modo mio. Il glossario era diventato una prolunga della mia mano. Non c’è persona al mondo più veloce di me nell’uso del dizionario.

Non usavo quasi mai i mezzi pubblici, mi piaceva camminare per ore in mezzo allo smog e ai palazzoni, pensando che non avevo mai visto una città così grande e meravigliosa, dove ogni cosa era lì, a portata di mano, di piedi o di metropolitana. Ogni cosa era al suo posto, nel luogo perfetto. La stazione, il mercato, il parco e il Duomo. Conoscevo ormai ogni angolo, da Centrale al Castello, da Loreto a Garibaldi. Adoravo la pizza, la pasta, i formaggi, il gelato e ogni possibile carboidrato autoctono. Mi piaceva la musica e la pioggia grigia dell’inverno. Amavo addirittura quel freddo umido lombardo, che appena messo piede a Milano mi aveva posseduto, invadente e crudele, per la prima volta nella mia vita.

E nonostante tutto, non ero italiana.

Non ero esotica, perché non avevo la pelle tostata “da spagnola”, e nemmeno il flamenco si era mai mosso attraverso i miei piedi. “Ma spagnola della Spagna o spagnola sudamericana?”. Come se uno potesse essere francese della Francia o francese della Costa d’Avorio. Solo perché sono paesi dove si parla la stessa lingua.

“Ma avete lo stesso fuso orario?”, “Il Nord vostro coincide con il nostro?” . Come se parlassimo di un paese lontano milioni di kilometri. Da allora prima di chiedere qualunque cosa su un paese di provenienza mi obbligo a guardare almeno una mappa. Anch’io confesso che la mia geografia non è perfetta. Ma non azzardo confini immaginari. Forse una volta non era abituale avere colleghi di lavoro stranieri, ma documentarsi può essere un ottimo antidoto all’ignoranza.

Da me la gente, se non viaggia, non sa dove sono i paesi. Ma sa che le cicogne si spostano a Sud e tornano prima di Pasqua a fare il nido sul campanile. E che le rondini volano basso quando arriva la pioggia, puntuale per le feste padronali di settembre, prima di andare via definitivamente verso le primavere di altri paesi. E che le rare volte in cui arriva la neve, forse gli ulivi daranno bei frutti. Tanti non sanno il punto esatto dove i loro figli sono volati cercando fortune, ma tutti sanno che a Natale torneranno, perché da me torrone e polvorones sono i più buoni del mondo.

“Dicci una parolaccia nella tua lingua”. “Parlaci in spagnolo, a me piace sentir parlare”. Ma cosa ti dico? Parlo a vanvera? Cose a caso? Ti recito un poema? Quale vocabolo sconcio vuoi sentire? Te ne dico uno pesante e mi lasci in pace?.

E così, alternando l’attrazione per la novità con la paura di confrontarsi con lo sconosciuto, passano i giorni. O ti odiano o ti amano. Chi si fida di te e si affida al tuo sforzo di integrarti, ti avvolge con un manto di affetto e rispetto e ti accompagna paziente parola dopo parola, movimento dopo movimento. Chi ha paura perché sa di non essere in grado di capirti oltre la lingua, rimane lontano.

Le rotte migratorie sono milioni. Sono interminabili strade nel cielo, battute senza sosta durante tutto l’anno. Gli stormi si incrociano tra di loro. Gli uccelli non urtano mai gli altri componenti, e si allineano in formazioni diverse e strambe tagliando il cielo e il vento. Ci sono quelli che si perdono, quelli che rimangono indietro e finiscono la loro avventura a metà tra la neve e il sole.

Di tutte le persone che hanno sorvolato intorno a me nel tentativo di lavorare in un paese straniero, sono in poche quelle rimaste. Perché solo l’amore ti afferra così forte da farti dimenticare il cammino di ritorno, portandoti sempre più avanti, finché la rotta diventa solo per te, e il destino finale lo raggiungi a modo tuo.

Da me non ci sono tante strade che portano allo stesso posto. Come per le mulattiere che vanno in montagna, devi scegliere quella giusta. Altrimenti, arrivi talmente in alto da finire di fronte ad una parete di pietra e ti tocca tornare indietro. Da me, se non sei sicuro di una scelta, è meglio non farla. C’è pure chi dopo potrebbe guardarti ridendo, perché ti crede un pentito del coraggio, un codardo confesso. E per tua sfortuna ti trovi ad osservare gli ulivi pensando da quale porta puoi ora scappare nuovamente dalla prigione.

“Signorina non mi tocchi se non sa parlare italiano”. Era la forma educata di farmi uscire dalla stanza, attrezzi infermieristici in mano, cercando altri colleghi. Per mesi sono stata “lenta” ,“stupida”, “incapace”, e “inaffidabile”, e ogni tanto origliavo intristita mentre alcune colleghe sparlavano delle straniere, credendo che io non capissi, convinte che dopo molte settimane io non avessi ancora imparato la lingua. La prova dei loro tentativi di parlare con me.

Io sono “fortunata”. Ho la pelle bianca. Con me viveva e lavorava una ragazza etiope, con la sfortuna di avere una bellissima pelle nera come il carbone, liscia e brillante come cioccolato fuso. E mille chiocciole nei cappelli che lei si ostinava a lisciare crudelmente con il phon per sembrare meno africana mentre io la guardavo invidiosa dalla soglia del bagno. Lei era l’obiettivo principale dei pazienti. “La negra no, qui in stanza non voglio la negra”. Lei, che aveva una laurea tricolore e un italiano perfetto, doveva lottare quotidianamente contro i pregiudizi. In fin dei conti, almeno io, una volta imparata bene la lingua, potevo fare il mio lavoro senza intoppi. Ironie della vita. Ironie dell’inciviltà.

Gli anni sono trascorsi così. Con il sangue straniero scaldato da un altro sole. Con l’amore arrivato un po’ intimorito e un po’ per caso. Chissà perché si pensa che lo straniero arrivi per portarsi via qualcosa. Il lavoro, i soldi, i figli e magari anche il cuore di qualcun altro. Non pensando invece che dà molto più di quello che prende.

Ora sono in piscina. E sento ancora i profumi di timo e rosmarino che aleggiano intorno. I miei bambini dormono, è un pomeriggio caldo e secco. E la scarsa brezza appena mi da sollievo sulle gambe bagnate. Ci sono due tortore sul filo della luce vicino che parlicchiano noncuranti del sole pomeridiano. Da me le tortore arrivano presto, con i primi caldi di fine marzo. E rimangono fino a ottobre inoltrato. Poi se ne andranno, queste due disturbatrici, in Africa o in Asia, chi lo sa. Anche noi ce ne andremo fra poco. Le valige riposano in garage in attesa, provate oramai da tanti viaggi. Sempre la stessa rotta, avanti e indietro, come un piccolo stormo.

Ma non sento nostalgia. Perche è sempre una calda estate ovunque sbarchiamo. Qui, in mezzo agli ulivi e ai mandorli, dove il sole c’e tutto l’anno. E a casa mia, nostra, dove d’inverno il calorifero non basta mai, dove ho usato per la prima volta in vita mia un piumone per dormire, dove piove puntualmente e spietatamente per settimane, dove ci sono tante piante nella nostra via quante ne avevo viste in tutti i vent’anni della mia vita precedente. Dove l’umida e rovente estate dura soltanto i tre mesi di calendario. Dove oramai il mio accento straniero è solo uno fra tanti e dove forse un giorno saremo tutti fortunatamente esperti di geografia. Dove non mi serve più tornare indietro a cercare il sole perché ormai ho capito che, ovunque noi siamo, il sole ce lo portiamo dentro.