martedì 24 marzo 2015

Uccelli migratori



  

Il cielo è azzurro. Tanto azzurro come non l’ho mai più visto da nessun’altra parte. Sdraiata sul bordo della piscina guardo in alto. Una mano dentro l’acqua trasparente e fresca e l’altra sotto la nuca. Mio fratello è seduto accanto a me, con le gambe che sguazzano buttandoci addosso goccioline ghiacciate. Anche lui guarda in alto, con le sue grandi dita a fare da visiera. “Guarda là” dice, indicando un punto da qualche parte in mezzo al vasto cielo. “Quella è la mamma dell’aquilotto. Vedi come lo osserva da lontano? Lo cura a distanza. Così lui impara da solo a volare e a cacciare.”

L’aquilotto ci passa sopra le teste facendo dei tozzi cerchi e scende maldestro verso i campi cercando chissà quale coniglio sbadato. Mamma aquila la trovo solo dopo qualche minuto di ricerca disperata. Un punto minuscolo e altissimo, verso la collina, fluttua immobile sorvegliante e paziente.

C’è un sole che spacca le pietre. E quell’aria secca e pulita, che non ha profumi se non quello delle piante aromatiche dell’orto. E il vento, che a casa mia c’è sempre. In estate ti secca la gola e la pelle, asciugandoti pietoso quando esci dalla piscina. In inverno taglia mani e labbra, e riesce a infilarsi fin sotto la sciarpa e il cappello congelandoti le orecchie. Da me freddo e caldo sono cordiali. Non arrivano ad attraversare la pelle. Ti avvolgono e ti accarezzano, danzando intorno burleschi, ma senza brividi né sudore.

Guardo le aquile e penso che vorrei anch’io volare lontano e cercarmi il cibo da sola. Penso alle offerte di lavoro. Qui ho appena un titolo in mano, poca esperienza e la sola possibilità di un lavoro eternamente precario. Non conosco la lingua e non ho mai messo piede in quel paese. Ma non ho paura. Semmai un po’ di rimorso, perché temo non sia il momento adatto per scappare via. Mi tuffo nel acqua isolandomi dai rumori di casa. Nel silenzio ovattato della piscina immagino di avere le ali e nuoto ad occhi chiusi in cerchio. Me ne andrò. Ho deciso, come decido sempre tutto, dopo una breve riflessione.

In aeroporto ho le valigie più grandi che abbia mai visto. Sono pesanti, hanno dentro ogni cosa di me. Non so dove vado ne quando tornerò e le ho riempite come se dovessi stare lontana anni ed anni. Così sono capitata qui. In tempi dove di stranieri ce n’erano pochi. Abbiamo quasi inaugurato l’alba degli infermieri immigrati. Domanda e offerta in perfetto equilibrio.

Il primo ricordo risale all’arrivo a Malpensa. Le valigie perse di qualcuno, il terrore di non essere capiti. Poi un pulmino. E fuori dal finestrino l’autostrada di sera, che scorre velocissima, piena di luci e di alberi. Ero talmente eccitata da non sentire paura, talmente affidata al mio destino che ripensandoci mi sento folle. Mentre il paesaggio si riflette spedito nel vetro dei miei occhiali, penso che a casa mia non ho mai visto così tante macchine e tanti alberi messi insieme.

Da me le strade sono lunghi serpenti grigi stesi al sole sopra un tappeto polveroso. Le poche macchine non hanno motivo di essere svelte la sera e vagano quasi solitarie tra le colline di ulivi e viti. Si sta in paese, la sera. E in mezzo alle file chilometriche di oleandri tra paese e paese volano soltanto civette e pipistrelli. Loro non migrano quasi mai. E quando lo fanno è per cercare cibo, trasferendosi insieme ai flussi capricciosi dei roditori. Oppure i giovani gufi, che partono alla ricerca di nuovi nidi. Da me le colline secche e piene di cespugli legnosi sono perfette per i nidi. È vero che ogni essere vivente ha un suo posto nel mondo che attende il suo arrivo. Anch’io ci sono arrivata sorvolando oleandri e ulivi. Sorvolando il mare e perdendo anche qualche piuma nel tentativo.

Per qualche giorno ci sono stati turbinii e montagne di carte, firme, bolli e permessi, oramai agli sgoccioli, perché una nuova Europa compariva davanti a noi mentre sfumava la Lira nei suoi ultimi mesi di vita. Abbiamo camminato per giorni in una città ignota che brulicava di gente e novità. Finché ci siamo tutti separati. Una volta passata la paura delle cose sconosciute, quando si vola da soli, un po’ spennati e un po’ coraggiosi, ognuno ha pensato per sé.

In mezzo alla corsia camminavo veloce, con il dizionario sempre in tasca. E nella mia stanza quando non lavoravo non facevo altro che ascoltare musica e leggere. Riviste di ogni genere e piccoli libri. E nelle cuffie migliaia di parole. Cantavo. A voce bassa, però. Alcune canzoni le risento ancora e le canto come allora, travisate e senza senso. E sorrido perche le capivo così, un po’ a modo mio. Il glossario era diventato una prolunga della mia mano. Non c’è persona al mondo più veloce di me nell’uso del dizionario.

Non usavo quasi mai i mezzi pubblici, mi piaceva camminare per ore in mezzo allo smog e ai palazzoni, pensando che non avevo mai visto una città così grande e meravigliosa, dove ogni cosa era lì, a portata di mano, di piedi o di metropolitana. Ogni cosa era al suo posto, nel luogo perfetto. La stazione, il mercato, il parco e il Duomo. Conoscevo ormai ogni angolo, da Centrale al Castello, da Loreto a Garibaldi. Adoravo la pizza, la pasta, i formaggi, il gelato e ogni possibile carboidrato autoctono. Mi piaceva la musica e la pioggia grigia dell’inverno. Amavo addirittura quel freddo umido lombardo, che appena messo piede a Milano mi aveva posseduto, invadente e crudele, per la prima volta nella mia vita.

E nonostante tutto, non ero italiana.

Non ero esotica, perché non avevo la pelle tostata “da spagnola”, e nemmeno il flamenco si era mai mosso attraverso i miei piedi. “Ma spagnola della Spagna o spagnola sudamericana?”. Come se uno potesse essere francese della Francia o francese della Costa d’Avorio. Solo perché sono paesi dove si parla la stessa lingua.

“Ma avete lo stesso fuso orario?”, “Il Nord vostro coincide con il nostro?” . Come se parlassimo di un paese lontano milioni di kilometri. Da allora prima di chiedere qualunque cosa su un paese di provenienza mi obbligo a guardare almeno una mappa. Anch’io confesso che la mia geografia non è perfetta. Ma non azzardo confini immaginari. Forse una volta non era abituale avere colleghi di lavoro stranieri, ma documentarsi può essere un ottimo antidoto all’ignoranza.

Da me la gente, se non viaggia, non sa dove sono i paesi. Ma sa che le cicogne si spostano a Sud e tornano prima di Pasqua a fare il nido sul campanile. E che le rondini volano basso quando arriva la pioggia, puntuale per le feste padronali di settembre, prima di andare via definitivamente verso le primavere di altri paesi. E che le rare volte in cui arriva la neve, forse gli ulivi daranno bei frutti. Tanti non sanno il punto esatto dove i loro figli sono volati cercando fortune, ma tutti sanno che a Natale torneranno, perché da me torrone e polvorones sono i più buoni del mondo.

“Dicci una parolaccia nella tua lingua”. “Parlaci in spagnolo, a me piace sentir parlare”. Ma cosa ti dico? Parlo a vanvera? Cose a caso? Ti recito un poema? Quale vocabolo sconcio vuoi sentire? Te ne dico uno pesante e mi lasci in pace?.

E così, alternando l’attrazione per la novità con la paura di confrontarsi con lo sconosciuto, passano i giorni. O ti odiano o ti amano. Chi si fida di te e si affida al tuo sforzo di integrarti, ti avvolge con un manto di affetto e rispetto e ti accompagna paziente parola dopo parola, movimento dopo movimento. Chi ha paura perché sa di non essere in grado di capirti oltre la lingua, rimane lontano.

Le rotte migratorie sono milioni. Sono interminabili strade nel cielo, battute senza sosta durante tutto l’anno. Gli stormi si incrociano tra di loro. Gli uccelli non urtano mai gli altri componenti, e si allineano in formazioni diverse e strambe tagliando il cielo e il vento. Ci sono quelli che si perdono, quelli che rimangono indietro e finiscono la loro avventura a metà tra la neve e il sole.

Di tutte le persone che hanno sorvolato intorno a me nel tentativo di lavorare in un paese straniero, sono in poche quelle rimaste. Perché solo l’amore ti afferra così forte da farti dimenticare il cammino di ritorno, portandoti sempre più avanti, finché la rotta diventa solo per te, e il destino finale lo raggiungi a modo tuo.

Da me non ci sono tante strade che portano allo stesso posto. Come per le mulattiere che vanno in montagna, devi scegliere quella giusta. Altrimenti, arrivi talmente in alto da finire di fronte ad una parete di pietra e ti tocca tornare indietro. Da me, se non sei sicuro di una scelta, è meglio non farla. C’è pure chi dopo potrebbe guardarti ridendo, perché ti crede un pentito del coraggio, un codardo confesso. E per tua sfortuna ti trovi ad osservare gli ulivi pensando da quale porta puoi ora scappare nuovamente dalla prigione.

“Signorina non mi tocchi se non sa parlare italiano”. Era la forma educata di farmi uscire dalla stanza, attrezzi infermieristici in mano, cercando altri colleghi. Per mesi sono stata “lenta” ,“stupida”, “incapace”, e “inaffidabile”, e ogni tanto origliavo intristita mentre alcune colleghe sparlavano delle straniere, credendo che io non capissi, convinte che dopo molte settimane io non avessi ancora imparato la lingua. La prova dei loro tentativi di parlare con me.

Io sono “fortunata”. Ho la pelle bianca. Con me viveva e lavorava una ragazza etiope, con la sfortuna di avere una bellissima pelle nera come il carbone, liscia e brillante come cioccolato fuso. E mille chiocciole nei cappelli che lei si ostinava a lisciare crudelmente con il phon per sembrare meno africana mentre io la guardavo invidiosa dalla soglia del bagno. Lei era l’obiettivo principale dei pazienti. “La negra no, qui in stanza non voglio la negra”. Lei, che aveva una laurea tricolore e un italiano perfetto, doveva lottare quotidianamente contro i pregiudizi. In fin dei conti, almeno io, una volta imparata bene la lingua, potevo fare il mio lavoro senza intoppi. Ironie della vita. Ironie dell’inciviltà.

Gli anni sono trascorsi così. Con il sangue straniero scaldato da un altro sole. Con l’amore arrivato un po’ intimorito e un po’ per caso. Chissà perché si pensa che lo straniero arrivi per portarsi via qualcosa. Il lavoro, i soldi, i figli e magari anche il cuore di qualcun altro. Non pensando invece che dà molto più di quello che prende.

Ora sono in piscina. E sento ancora i profumi di timo e rosmarino che aleggiano intorno. I miei bambini dormono, è un pomeriggio caldo e secco. E la scarsa brezza appena mi da sollievo sulle gambe bagnate. Ci sono due tortore sul filo della luce vicino che parlicchiano noncuranti del sole pomeridiano. Da me le tortore arrivano presto, con i primi caldi di fine marzo. E rimangono fino a ottobre inoltrato. Poi se ne andranno, queste due disturbatrici, in Africa o in Asia, chi lo sa. Anche noi ce ne andremo fra poco. Le valige riposano in garage in attesa, provate oramai da tanti viaggi. Sempre la stessa rotta, avanti e indietro, come un piccolo stormo.

Ma non sento nostalgia. Perche è sempre una calda estate ovunque sbarchiamo. Qui, in mezzo agli ulivi e ai mandorli, dove il sole c’e tutto l’anno. E a casa mia, nostra, dove d’inverno il calorifero non basta mai, dove ho usato per la prima volta in vita mia un piumone per dormire, dove piove puntualmente e spietatamente per settimane, dove ci sono tante piante nella nostra via quante ne avevo viste in tutti i vent’anni della mia vita precedente. Dove l’umida e rovente estate dura soltanto i tre mesi di calendario. Dove oramai il mio accento straniero è solo uno fra tanti e dove forse un giorno saremo tutti fortunatamente esperti di geografia. Dove non mi serve più tornare indietro a cercare il sole perché ormai ho capito che, ovunque noi siamo, il sole ce lo portiamo dentro.