Il calcio è entrato prepotente in casa nostra, non l'avrei
mai detto. Insieme alle magliette luride, alle zolle di fango e quello che è
peggio (e anche questo non l'avrei mai detto), alle collose e infide foglie
d'erba sintetica.
A distanza di un paio di inverni e contro ogni mia
previsione (vedi Noi e il calcio parte I) è venuto fuori, pur ancora
timidamente e con le dovute limitazioni di misura, il portiere che era in lui.
Siamo arrivati sani e salvi alla fine dell'anno calcistico.
Più sani che salvi, visti i risultati. Ma abbiamo lasciato indietro un anno
sportivo emotivamente altalenante.
Non avrei mai detto (in poche righe quante cose non avrei
mai detto e invece mi trovo a dire) che il calcio avrebbe fatto crescere i
bambini e ci avrebbe dato lungo questi mesi mille spunti educativi dove
attaccarci, avidamente, per affrontare situazioni di sconforto, gioia,
violenza, amicizia, delusione, gelosia, vittoria e sconfitta.
Ci siamo imbattuti con il meteo, fiduciosi e caparbi,
sommersi dal fango o congelati fino al midollo.
Chi ha perso divise, rotto pantaloni, piegato ossa e
smarrito ogni pazienza.
Siamo arrivati alla fine leggermente ammaccati, anche noi
adulti, che non sapevamo di essere un po' bulli e un po' guerrieri, che abbiamo
imparato che il gruppo fa la forza, ma che non sempre si ha ragione su tutto.
Abbiamo imparato che anche il modo di lottare si insegna ai bambini, non solo
l'obbiettivo.
Ci siamo raccontati storie e abbiamo condiviso gli ombrelli
mentre le distanze fisiche tra i nostri figli si accorciavano prendendo la
forma degli abbracci.
Abbiamo scoperto che ci sono ragazzi giovani che hanno
sorrisi meravigliosi, del tempo scarno che ricavano per noi e che sanno aprire
grandi le braccia per farci stare dentro tutta la nostra piccola squadra.
Abbiamo deciso che si rimane insieme perché qualcosa in
ognuno di noi ci accomuna.
Si riconoscono già i campioncini, e quelli per cui il calcio
sarà solo uno sport divertente. Ma sono tutti cresciuti, cambiati,
entusiasmati.
Io so che arriverà un giorno dove chi non giocherà quella
partita, perché non convocato, andrà lo stesso a tifare i compagni dalle
tribune, centrando il bersaglio: non vincere i campionati, ma aver imparato a
riconoscere, anche quando non saremo più noi, la ricchezza di fare e di essere,
sempre e comunque, una squadra.